«Potevi farmi un cenno: ti avrei fatto vedere da vicino la scena girata. Non è che stavamo sul set di Roland Emmerich, non c’erano bodyguard». Paola Cortellesi esordisce così quando la informo che, durante la scorsa primavera, mi ero trovato per caso vicino al set del film C’è ancora domani, opera prima come regista di un’attrice versatile e talentuosa, capace di passare da commedie agrodolci campioni di incassi, sceneggiate insieme a Giulia Calenda e Furio Andreotti (tra cui Come un gatto in tangenziale), a serial dall’anima dark come Petra su Sky. Un debutto così convincente da portare l’organizzazione della Festa del cinema di Roma a scegliere la sua pellicola come film d’apertura della kermesse, che illumina l’Auditorium Parco della musica dal 19 al 28 ottobre.

 

Da dove è partita la voglia di metterti in gioco dietro la macchina da presa?

Ci ho pensato dopo alcuni anni di lavoro come sceneggiatrice. Mario Gianani, della società di produzione Wildside, me lo chiese qualche tempo fa ma avevo qualche reticenza. Un po’ come accade nel cult Ghost, quando il personaggio interpretato da Whoopi Goldberg non vuole lasciare l’assegno con i soldi alla suora (ride, ndr). In realtà, il lavoro di scrittura è stato il punto di svolta perché mi ha permesso di raccontare quello che volevo. Così, dopo molti anni, quando mi è stato riproposto di fare un film mio ho accettato.

 

Cosa racconti al pubblico?

Una storia personale su quello che mi sono immaginata ascoltando i racconti della mia bisnonna, di mia nonna e di mia mamma: è un film sull’infanzia e la crescita di alcune generazioni. Dentro convivono i miei ricordi e quello che sappiamo a livello storico su come si viveva nella seconda metà degli anni ‘40 e sul fatto che la donna era considerata pari a zero. Si racconta di quanto siano importanti alcuni diritti che prima non c’erano.

 

Come definiresti Delia, il tuo personaggio?

In quel periodo ci sono state donne straordinarie, capaci di fare la storia, personalità coraggiose come Nilde Iotti. Io ho puntato il focus su quelle ordinarie, senza consapevolezza. Volevo raccontare le donne che non vengono ricordate ma hanno ugualmente costruito il Paese, ignare della forza che possedevano, cresciute con l’idea di non contare niente. Delia non ha coscienza di sé: è madre e moglie, sono i ruoli a definirla. Si muove in funzione di quello che la società si aspetta da lei. E accetta serenamente un marito violento e un’esistenza difficile. Spera solo che la figlia, sposandosi, venga tirata fuori da quella famiglia imbarazzante. Poi succede qualcosa,

le carte cambiano e portano la storia da un’altra parte.

 

Esistono ancora donne così?

È pieno. Ci sono persone che ancora si comportano secondo le richieste della società. Anche se con altre consapevolezze.

 

Hai realizzato il film per risvegliare le coscienze?

L’ho fatto per raccontare questa storia. Una sera mia figlia, mentre le leggevo un libro sulle donne controcorrente, si è chiesta perché le ragazze non potessero fare tante cose in passato. Sentendo questa domanda mi sono resa conto di quanto le nuove generazioni trovino incredibile il percorso che noi abbiamo compiuto perché loro potessero beneficiare dei diritti. Motivo per cui quella girata è una pellicola contemporanea, anche se ambientata nel passato.

 

Che cosa differenzia le generazioni di una volta da quelle di oggi?

La differenza sta nella consapevolezza della donna e in un pacchetto di diritti da preservare. I terribili fatti di cronaca successi quest’estate sottolineano un’emergenza culturale legata ai retaggi del patriarcato, che un tempo era dichiarato: c’era un padre padrone che ti passava a un marito e quello ti dovevi tenere. Adesso il concetto del possesso non è più così manifesto, ma in certe situazioni resiste ed è legato a una mancata evoluzione culturale. Da una parte abbiamo avuto diritti, dall’altra siamo rimasti indietro con la mentalità. Nel film descrivo uno spaccato familiare dichiaratamente connesso con un periodo storico ma che, purtroppo, incontra affinità col presente.

 

Come ti senti ad aprire la Festa del cinema di Roma?

Onestamente, al primo film da regista non mi aspettavo nulla del genere. Invece la direttrice artistica Paola Malanga, dopo averlo visto, mi ha chiamata: sia lei sia la commissione selezionatrice lo hanno amato e apprezzato molto. Peraltro, è ambientato proprio nella Capitale.

Valerio Mastandrea e Paola Cortellesi in una scena del film C’è ancora domani © Luisa Carcavale e Claudio Iannone

Immagino, quindi, che per te sia un riconoscimento importante.

Importantissimo. Anche se girato in bianco e nero, questo film è popolare come lo è la Festa del cinema. Spero arrivi a tante persone e, soprattutto, mi auguro che lo vedano tante ragazze e tanti ragazzi.

 

Roma è la tua città: cosa rappresenta per te?

Una malattia. Nonostante sia una metropoli complessa, nonostante la sua grandezza non renda le cose semplici, nonostante sia offesa ogni giorno dai propri abitanti, chi ci è nato sa che è la città più bella del mondo, la ama follemente e non se ne staccherebbe

mai. Personalmente, il cordone ombelicale non è mai stato reciso: Roma è un modo di porsi, parlare, reagire alle cose che c’è solo qua e mi piace.

 

Nel film quanto è protagonista la città?

Non viene raccontato un quartiere specifico, la storia vale in tutti i luoghi d’Italia, forse in tutto il mondo di quel periodo: sono le vicissitudini di una famiglia, un racconto universale di un determinato ceto sociale in un particolare periodo del passato. I personaggi, però, sono disegnati su caratteri romani che conosco profondamente. Sono i ricordi di mia nonna e della mia bisnonna, ma anche della famiglia abruzzese da cui proviene mia madre, che non differiscono da quelli capitolini. È un racconto italiano.

 

Dopo questo film è cambiato il modo di intendere il tuo lavoro da attrice?

No, già da diversi anni come sceneggiatrice mi sono occupata d’altro. Forse questo mi ha aperto lo sguardo come interprete. Di base, quando ho potuto, ho sempre scelto un film per la storia piuttosto che per il ruolo. Il personaggio deve muoversi all’interno

di un plot che funziona, bisogna guardare l’insieme. Sulla recitazione di questa pellicola, però, ho fatto un lavoro meticoloso, a teatro, tre settimane prima di iniziare. L’esperienza mi ha aiutato a dirigere gli attori perché conosco l’importanza delle prove

e dei tempi. Chi interpreta una parte deve stare a proprio agio, per questo ho messo a copione le proposte dei colleghi.

 

Nella vita e sul set cerchi di tutelare l’ambiente?

Mi sto impegnando sempre di più per riuscirci. Sono consapevole dei danni che abbiamo procurato al Pianeta e cerco di comportarmi in maniera ecosostenibile. Ce la  sto mettendo tutta, ho anche predisposto un set green con l’aiuto di un consulente che ci aiutava a evitare sprechi e plastica. È bene che si facciano campagne sull’ambiente. Mia figlia, a scuola, è sensibilizzata dai docenti su questo tema. Le nuove generazioni ci possono insegnare comportamenti diversi.

 

Tua figlia Laura ha visto il film?

Ancora no, ma è dedicato a lei e alle ragazze della nuova generazione.

Cosa vorresti pensassero le ragazze una volta uscite dal cinema?

Mi piacerebbe che fossero consapevoli della propria libertà. E di quanto sia importante combattere per rimanere libere.