Ho appuntamento nella Murgia pugliese con Attilio, un mio amico di Bari. Ci incontriamo ad Andria, dove si trova Castel del Monte, una fortezza del XIII secolo fatta costruire dall’imperatore del Sacro romano e re di Sicilia Federico II di Svevia. L’edificio famoso per la sua pianta ottagonale, domina la sommità di una collina nell’omonima frazione del comune di Andria. Avvistarlo è sempre suggestivo, così maestoso nella sua magnificenza, eppure in perfetta sintonia con la natura, come se quello fosse il suo posto predestinato. Saluto Attilio che, mentre ci incamminiamo verso il castello, mi parla della sua squadra del cuore, il Bari, mentre io gli racconto del Potenza Calcio: condividiamo la stessa passione. Poi ci fermiamo a chiacchierare su una panchina e lui dallo zaino tira fuori un pacco di taralli dicendomi di averli presi in un posto speciale. Visto che sono buonissimi, gli chiedo di accompagnarmi nel luogo in cui li ha acquistati perché vorrei comprarne una confezione da portare a casa. La strada per arrivare è quella tipica delle campagne pugliesi. 

 

Incrociamo oliveti, muretti a secco e tenute. Sul cancello di una di queste leggo la scritta “Masseria San Vittore”. Ci viene incontro un signore sorridente in jeans e maglietta e non posso fare a meno di notare la stampa sul la sua t-shirt: “Senza sbarre, a mano libera”. L’uomo si presenta, mi dice di chiamarsi Don Riccardo Agresti e io, incuriosito, gli domando il perché di quella maglietta. Mi spiega che Senza sbarre è il nome di un progetto diocesano nato come risposta ai numerosi problemi legati al carcere. In questo contesto ha preso vita la cooperativa A mano libera che produce, nei locali della masseria, pasta, taralli e prodotti da forno. Una misura alternativa attraverso cui le persone recluse hanno accesso al mondo del lavoro.

 

«Nelle prigioni italiane i detenuti vengono puniti, non rieducati. La questione non va sottovalutata perché il modo in cui trattiamo i condannati delinea il nostro essere civili, la nostra capacità di vivere all’interno di una comunità, senza pregiudizi. Lo scopo del carcere, quello fondante e costituzionale, è rieducare, consentire alle persone che hanno scontato una pena di rientrare in società e di ricostruirsi una vita. Occorre sempre ricordarlo. A causa di diversi fattori non sempre questo avviene, ma credere fermamente nel diritto di chiunque a riabilitarsi ci rende comunque cittadini migliori». Dopo aver ascoltato con grande attenzione le parole del sacerdote voglio sapere di più del progetto. Lui mi dice che tutto è cominciato all’interno delle comunità parrocchiali della zona, dove era evidente l’assenza dei padri agli incontri dedicati alle famiglie. «Indagando insieme a un altro parroco, ho scoperto che diversi di loro erano reclusi nella Casa circondariale di Trani o in altre carceri d’Italia. Era necessario fare qualcosa per incontrare queste persone e abbiamo deciso di organizzare colloqui più assidui con i detenuti anche per offrire loro una cura spirituale. Dopo qualche anno, quel conforto non era più sufficiente. Serviva qualcosa di più concreto per ridonargli la speranza in un futuro migliore, con nuove prospettive familiari, sociali e lavorative».

progetto senza sbarre

Intuisco così lo sviluppo della vicenda e l’idea di formare una comunità negli spazi della masseria. La conferma arriva immediatamente da Don Riccardo che mi spiega di aver chiesto al vescovo, insieme a Don Vincenzo Giannelli, la possibilità di prendere in gestione la Masseria San Vittore per aprire una comunità residenziale e semiresidenziale destinata a persone sottoposte a provvedimento privativo o limitativo della libertà personale. «Nello spirito della frase pronunciata da Gesù “bussate e vi sarà aperto”, Senza sbarre vuole essere un’opportunità, una possibilità per chi si trova a dover subire le criticità del sistema carcerario. Vogliamo essere l’anello di congiunzione tra il dentro e il fuori, provare ad alleviare i disagi che il passaggio comporta. La misura alternativa al carcere, sostituendosi alla pena detentiva e abituando il condannato alla vita di relazione, rende più efficace l'opera di risocializzazione». Questa storia mi ha rapito e voglio conoscere bastanza i ragazzi. Raggiungo l’orto dove lavorano alcuni di loro, mi presento e chiedo cosa stanno facendo. Si guardano e il più anziano mi invita ad ammirare il frutto del loro lavoro: «Qui era pieno di rovi e immondizia. Lo abbiamo curato con le nostre mani e questo risultato ci gratifica tanto». In questo piccolo pezzo di terra si producono ortaggi che non saranno venduti ma offerti alle associazioni del territorio come una sorta di risarcimento del danno inflitto alla società.

Don Riccardo si avvicina, mi accarezza e io gli chiedo della cooperativa di lavoro nata dal progetto di comunità. Lui mi parla di un incontro provvidenziale con un pastaio che ha donato i macchinari alla masseria e insegnato ai ragazzi le tecniche per preparare la pasta e i taralli. È orgoglioso del loro percorso, dell’interesse suscitato in giro per l’Italia e va avanti spiegandomi i dettagli:«La vita comunitaria nella tenuta si sviluppa attraverso attività strutturate e si svolge secondo un’organizzazione abbastanza rigida. Compiti e responsabilità sono suddivisi tra i partecipanti e non mancano momenti di confronto e formazione». Prosegue dicendomi che il progetto si basa anche sull’accoglienza dei detenuti all’interno di comunità parrocchiali e che la loro risposta è generalmente entusiasta. «I ragazzi si stanno impegnando tantissimo in un percorso di rieducazione che in carcere è solo un'utopia. Lì i colloqui con gli educatori sono sporadici e insufficienti.

 

La prigione, inoltre, consente a chi vuole continuare a delinquere di instaurare o fortificare rapporti con criminali, piantando le basi per nuovi reati da commettere una volta usciti. Con una misura alternativa come quella che proponiamo noi, invece, questa catena si spezza e le persone coinvolte vengono accompagnate verso una vera revisione critica degli errori commessi. Quella che offriamo è una possibilità di riscatto, l’opportunità di immaginare veramente una nuova vita». Con gli occhi lucidi per la commozione, saluto Don Riccardo e i ragazzi e gli prometto di tornare presto a trovarli.