© Andrea Bianchera

«Ho voluto la bicicletta e adesso pedalo. Devo allenarmi bene per fare correre questa bici pesantissima, piena di ruote». Marco Mengoni si ritaglia un po’ di tempo per La Freccia nonostante sia nel frullatore tra live europei, un disco da chiudere e i preparativi per l’esibizione all’Eurovision Song Contest di Liverpool. Oltre ovviamente al tour estivo Marco negli stadi, tutto da imbastire, che parte il 17 giugno da Bibione (Venezia) per proseguire a Padova (20), Salerno (24), Bari (28), Bologna (1° luglio) Torino (5) e Milano (8), con gran finale al Circo Massimo il 15 luglio. Il vincitore del Festival di Sanremo con la struggente Due vite, del resto, è il ragazzo dei record, forte di 71 certificazioni di platino, quasi due miliardi di stream, sette album all’attivo e una serie di concerti quasi tutti sold out. Eppure, nonostante il successo, i consensi, le folle che lo acclamano e una carriera (che sta diventando) sempre più internazionale, Marco sembra sempre lo stesso: un ragazzo dagli occhi grandi capace di stupirsi delle belle cose che gli accadono, quasi inconsapevole del suo talento. Un artista sincero, senza filtri, che ha trasformato le sue fragilità in una forza emotiva in grado di conquistare le masse.

Cosa ha rappresentato la vittoria a Sanremo dopo dieci anni?

È stata una conferma per il mio essere sempre, costantemente, insicuro. Mi ha giovato molto, mi ha acquietato, calmato. Ha dato solidità al lavoro che stavo facendo in studio per il disco. Il mio mestiere è fatto a step: si deve faticare incessantemente, senza mai abbassare la guardia. È necessario avere voglia di consumare la vita.

Cosa ti ha fatto felice?

Sono contento di avere un pubblico eccezionale e che il messaggio portato sul palco dell’Ariston sia arrivato. Il sudore è valso a qualcosa. Sono onorato di aver partecipato a questo festival: all’inizio ero titubante, è stata una sfida con me stesso ritrovarmi davanti alle emozioni vissute dieci anni prima, con l’ansia da prestazione. Il bilancio è positivo, ma si può fare sempre meglio.

Perché eri titubante?

Temevo il confronto con me stesso, inevitabile quando ci si mette a nudo. E quello del Teatro Ariston è un palco che un po’ ti spoglia, senza gli appigli che hai quando registri un disco o sei in tour, nella comfort zone. A Sanremo ti metti in gioco e ti chiedi: «Riuscirò ad arrivare al pubblico in tre minuti?». Venivo da anni molto belli e temevo che, se non fossi stato abbastanza lucido, avrei potuto sbagliare.

Mengoni durante il live allo stadio Olimpico di Roma il 22 giugno 2022

Così non è stato: fin da subito ti hanno dato come il papabile trionfatore. Immagino che, a un certo punto, ti aspettassi di vincere.

In realtà ho avuto sempre dubbi, anche quando ero sul palco con Lazza, prima del verdetto. Credevo di vederlo trionfare.

Ah sì?

Ero quasi sicuro avrebbe vinto lui. Ho invidiato, con sportività, il suo bellissimo pezzo, Cenere. E poi io quell’esperienza l’avevo già vissuta dieci anni fa, per questo lo accarezzavo e pensavo a come avrei potuto trasmettergli la mia stima alla proclamazione del vincitore. Nello stesso tempo, su Due vite sentivo il calore e la vicinanza delle persone, i feedback positivi, ma nella bolla festivaliera nessuno riesce a percepire davvero la realtà delle cose. E a Sanremo tutto può cambiare all’ultimo secondo. Non mi aspettavo, invece, di vincere la serata delle cover.

Come mai?

Perché Let it be è un inno, anche se ho cercato di vestirlo con le sonorità del mio album Materia (Terra). Durante la kermesse, quella sera, c’erano state esibizioni meravigliose e credevo che un pezzo in inglese potesse avere un buon piazzamento ma senza arrivare primo. Tanto che io e il Kingdom Choir ci siamo cambiati e siamo andati via.

Perché non hai scelto un pezzo in italiano?

Mi ero cimentato con quasi tutti i cantautori. Mi manca solo Fabrizio De André, con il quale non voglio minimamente confrontarmi. Nel 2013 avevo portato Ciao amore ciao di Luigi Tenco e, tra l’altro, avevo da poco interpretato l’inedito Caro amore lontanissimo di Sergio Endrigo per il film Il colibrì, di Francesca Archibugi. Mi sembrava di fare qualcosa di già visto e sentito. Let it be è una prosecuzione dei messaggi nascosti in Due vite.

Quali?

Continuare ad andare. Perché magari non c’è tempo e bisogna macinare e vivere.

E tu stai macinando col nuovo album il cui titolo è…?

Prende il nome da un oggetto molto semplice che fa una cosa magica. Il nuovo disco si intitola Materia (Prisma) ed esce il 26 maggio (già disponibile in pre-order, ndr).

Spiegaci meglio.

Il prisma mi è sempre piaciuto. È un richiamo ai Pink Floyd perché nell’album ci sono anche quelle influenze. Ed è magico nel momento in cui una luce bianca gli passa attraverso: fa da filtro, viviseziona il raggio che entra e lo spezzetta in tantissimi colori. Questo disco è la chiusa di tutto, con le diverse sfaccettature della mia musica e della mia carriera, che spero di portare avanti fino a quando avrò creatività.

Ti senti un prisma?

Un po’ lo sono: mi faccio attraversare dalle esperienze e tendo a concentrarmi sulle molteplici possibilità di analisi. Essendo un overthinker che esamina tutto ho anatomizzato molte cose.

Cioè?

In alcuni pezzi sono un po’ polemico ma con me stesso.

Motivo?

Non riesco a dire di no, forse sono troppo buono. A volte non riesco a farmi sentire e urlo con me stesso. Alzo la voce per chi non ascolta ma senza gridare. Il bello del prisma è proprio prendere qualcosa di assoluto e renderlo relativo, analizzando gli aspetti dietro ogni esperienza radicata. L’ho provato su di me e sulle cose a cui mi sono interessato.

Dai l’impressione di pensare tantissimo. Decomprimi mai?

Purtroppo, no. Ci sto lavorando il più possibile ed è la cosa che ripeto più spesso alla mia terapeuta. Non riesco a fermare il mio cervello, la mente mi fa pensare a tutto quello che gira intorno a una determinata cosa. Fa parte del mio carattere e non voglio azzittire e mutare questa modalità. È il bello e il brutto di me. Quando arrivo al limite, l’emotività prende le redini e seguo il flow: ormai non mi trattengo più, non mi limito. Piangendo, per esempio, non faccio del male a nessuno.

Hai da poco terminato un tour europeo, Caro amore lontanissimo è candidata al David di Donatello come miglior canzone, c’è l’Eurovision Song Contest, poi i live estivi con il gran finale al Circo Massimo. Come riesci a portare avanti tutto?

Non lo so (ride, ndr). L’unica cosa da fare, per un overthinker, è cercare di pensare il più possibile a quello che sta accadendo ora, in questo momento.

Mengoni durante il live allo stadio San Siro il 19 giugno 2022

Torniamo un attimo a Materia (Prisma). Che sonorità avrà?

Non le so definire, ci sono tante cose che si incastrano. C’è una specificità di bassi e batterie, con una parte ritmica che non avevo mai inserito in un progetto finora. È un disco vivo.

Il live al Circo Massimo del 15 luglio sarà diverso da quello negli stadi?

Sarà una liberazione dallo stress di quest’anno (ride, ndr). A parte gli scherzi, sto vivendo un momento pieno di cose meravigliose. Non sarà come i soliti concerti, ma una grande festa che inizierà molto prima. Per festeggiare ci vogliono amici e tante persone. E il Circo Massimo è bello grande.

Se incontrassi il Marco Mengoni che ha vinto X Factor nel 2009 e quello che trionfò a Sanremo nel 2013 con L’essenziale cosa diresti loro?

Di commettere gli stessi errori. Sono soddisfatto di ciò che ho seminato. Anche le esperienze che non dovevo fare mi hanno reso consapevole di quello che sono, senza dover essere perfetto a tutti i costi. Prima tendevo alla perfezione, parola farlocca inventata da qualcuno per burlarsi di noi.

Chi sei oggi?

Un ragazzo consapevole dei propri limiti, ma anche dei propri pregi. Non esistono solo ombre, ma anche luci, non ci sono solo i mostri, ma anche le fate.