In apertura, photo © Duncan Andison/AdobeStock
Settembre mette fuori della porta l’estate e l’apre all’autunno. Settembre è anche il primo mese dell’anno la cui etimologia non richiama né una divinità né suggerisce una precisa funzione, ma soltanto un numero. Il sette, perché settimo mese di un calendario che ne conosceva all’inizio soltanto dieci.
Accade così pure per i mesi successivi, fino a dicembre, che serra le porte dell’autunno e spalanca quelle dell’inverno. Come se a questi mesi, agli uscieri e ai protagonisti dell’autunno, i nostri antenati – e forse anche noi oggi – non abbiano voluto chiedere
niente altro se non accompagnarci verso la fine dell’anno, aspettando il prossimo.
Negli Stati Uniti si è soliti chiamarla Fall questa stagione che vede gli alberi
denudarsi, e dopo averle viste ingiallire, spogliarsi delle loro foglie. Caducità, precarietà, fine di un ciclo. Tutti ricordano i versi di Giuseppe Ungaretti con la similitudine tra la vita al fronte e quella delle foglie “come d’autunno, sugli alberi”. Fatti i debiti distinguo, e avendo ben chiara la netta differenza tra il significato letterale e quello allegorico, siamo un po’ tutti noi come soldati al fronte.
La fragilità della nostra vita è un dato esistenziale, ma le difficoltà dei mesi che stiamo vivendo tingono anche la quotidianità di legittime inquietudini sul futuro, fanno vacillare le basi dei nostri progetti, ci costringono a rimettere in discussione quel che davamo per scontato, acquisito una volta per tutte.
La guerra in Ucraina continua, le tensioni internazionali non accennano ad allentarsi, la crisi energetica, il caro bollette, la difficoltà nell’approvvigionamento di fondamentali materie prime. Un quadro davvero delicato e complesso fa da scenografia a questa prima metà degli anni ‘20 che, con il progressivo abbandonarci della pandemia da Covid-19, ci saremmo aspettati e auspicati “ruggenti” come furono (almeno definiti) quelli di un secolo fa.
Eppure, abbiamo la necessità e il dovere di affidare una missione all’autunno che viene, come alle stagioni che lo seguiranno. Abbiamo tutti il dovere dell’ottimismo, e un modo per consolidare il diritto a goderne. Perché non sia soltanto uno slogan gli ingredienti insostituibili, individualmente, sono professionalità, passione ed entusiasmo nelle nostre attività, e un impegno che, se necessario, sfiori la caparbietà e l’abnegazione.
Quello dell’ottimismo è un mantra che ripetono in molti, dal presidente del
Consiglio uscente a tanti altri politici, dirigenti privati, amministratori pubblici.
Lo ripete spesso anche l’amministratore delegato del Gruppo FS. È un’esigenza fondamentale, di fronte a un periodo che, con la spinta dell’Unione europea (Recovery Fund e Next Generation EU) puntava e punta a dotare il nostro, come altri Paesi, di nuove infrastrutture fisiche e digitali, ad attivare e incentivare un processo di
modernizzazione destinato a migliorare la coesione territoriale e sociale, ridurre le diseguaglianze, accrescere la qualità generale della mobilità e dei servizi ai cittadini: dall’istruzione alla sanità, dalla produzione di energia alle comunicazioni. Il tutto mantenendo ben saldo il principio della sostenibilità che si traduce in un obiettivo a parole facile da definire: lasciare ai nostri figli un mondo non gravato da ferite difficili da sanare e migliore (più giusto, equo, solidale, pulito, efficiente, vitale) di come l’abbiamo trovato.
Con questo reiterato invito all’ottimismo dovremmo tutti riuscire a dare forza e significato alla prossima stagione autunnale, trasformarla da caduta e attesa a rinascita. Fatelo, se potete, continuando a viaggiare con noi sia nello spazio, meraviglioso come lo rappresentano tanti angoli della nostra Italia densi di storia, arte e natura che anche su questo numero vi raccontiamo, e anche nel tempo, tenendo ben strette le nostre radici, remote e vicine, e i valori che esse racchiudono.
Su questo numero troverete anche, in tal senso, un ricordo di Carlo Alberto dalla Chiesa, a 40 anni dal suo efferato assassinio.
Articolo tratto da La Freccia
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