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L’artista e i suoi luoghi: non vi è relazione più complessa di quella che lega, e a volte divide, l’uno dagli altri. Nel caso di Lucio Battisti si può cominciare dalla fine, dall’ospedale milanese dove i suoi concittadini, ammiratori e amici si radunarono per giorni, senza poter entrare, quando il cantautore era ricoverato. Qui, dove l’artista si spense il 9 settembre 1998, stazionarono tante persone e si fermò, invano, anche un pullman con a bordo il sindaco, i parenti e gli amici di Poggio Bustone, nel Reatino, sua città natale.
 

Il luogo dove un musicista va a vivere può avere molti significati, può essere d’ispirazione o un rifugio. In quest’ultimo caso viene in mente Dosso di Coroldo, una frazione della già piccola Molteno, la cittadina lombarda dove Lucio approntò il suo fortino per ripararsi dai fotografi in cerca di una posa rubata dal suo quotidiano o chissà quale segreto da vendere ai lettori.
 

Nella Brianza lecchese Battisti trovò la sua dimora. In quest’angolo d’Italia il musicista si dedicò alle sue abitudini preferite – il giardinaggio, la pittura, il risotto col pesce persico, un bicchiere di Bonarda rosso – ed esercitò il vezzo di pagare il conto delle trattorie con la legna che abbondava nel parco di casa. Battisti fu il primo a eludere i tranelli della comunicazione che negli anni ‘70 andava scadendo nel pettegolezzo.

Interruppe ogni contatto con la stampa e si trasformò in un soggetto

misterioso, accrescendo la sua leggenda. Ma proprio perché il suo

svanire dalla mondanità equivalse a liberarsene, ogni altro luogo per lui

diventò transitorio. Come stare senza esservi. Che fosse a Rimini nella seconda casa al mare o nelle residenze milanesi di Largo Scalabrini e Largo Rio de Janeiro o nell’appartamento sulla via Cassia, nella Capitale. Forse giusto la Roma del Pigneto, dove Battisti si trasferì insieme alla famiglia, temprò il carattere del bimbo seienne, che crebbe in piazzale Prenestino 35, in quella che allora era considerata periferia estrema. Ma fu solo un passaggio di tempo.

Uno scorcio di Poggio Bustone

Uno scorcio di Poggio Bustone

Battisti adulto amava il silenzio. L’ultima intervista la concesse nel 1979

a Giorgio Fieschi, che lavorava per la Radiotelevisione della Svizzera italiana. Rilassato, raccontò delle sue esperienze all’estero: la registrazione a Hollywood di Io tu noi tutti e quelle di Una giornata uggiosa e Una donna per amico ai Townhouse Studios di Londra.

Che un artista diventi apolide è difficile. Tra il lavoro e la cura dei propri

interessi, una dimora dove tornare diventa un bisogno affettivo. Battisti si spostò al nord seguendo il suo amore, si sposò a Milano, ebbe un figlio. Ma ciò non bastò a fargli dimenticare il suo paese d’origine: adorava Dea, sua madre (i due morirono della stessa malattia) e aveva molti amici poiani sinceri.

Con Mogol, poi, si creò un forte sodalizio che via via si cementava in opere che sono entrate nella storia della musica italiana. E quando il 5 settembre del 1970, Lucio decise di dare il suo ultimo concerto pubblico, non ebbe dubbi su dove farlo: scelse Poggio Bustone, da dove era partito. «Fu un evento memorabile», ricorda Colomba Fagiani, una cara amica di famiglia. «C’era gente sui tetti, il paese era tutto lì, oltre ai suoi fan venuti da fuori. Tutti i poiani lo conoscevano e lui chiese una luce sparata sul volto, per non vedere nulla, per non pensare a niente». Colomba è stata un’insegnante e un’educatrice per bambini disabili, ed è una donna di cuore. Di Lucio bambino ha in mente la sua tranquillità e il pallino per la musica.

Capitava che nella barberia di Giuseppe suonassero: Lucio provava con ostinazione e poi s’incantava a seguire alla chitarra Silvio Di Carlo, che faceva l’elettricista ma gli diede le prime lezioni.

Molti italiani vanno a Poggio Bustone, dove Battisti nacque, il 5 marzo del ’43, per rendergli omaggio. Il sindaco Rovero Mostarda e il delegato alla cultura e nipote del cantautore, Athos Battisti, mi guidano fino alla casa di Lucio, al 53 di via Roma. Le finestre si affacciano sulla valle reatina e sui gradini della scalinata sono trascritti i titoli delle sue canzoni. Athos è trombettista nella banda nazionale dei Carabinieri, la musica ce l’ha dentro. «Mio zio conosceva le virtù e i limiti della sua arte», racconta, «ma a un certo punto comprese che era la sua voce lo strumento nuovo».

Michele Neri, scrittore e critico che nel 2010 ha pubblicato il libro Lucio Battisti. Discografia mondiale, opera su cui ha speso anni felici di lavoro, sottolinea come Lucio avesse «grande fermezza professionale, una creatività inesausta, il genio di ottenere il miglior brano possibile. Mischiare la leggerezza alla concentrazione per lui era un segno di superficialità. Non gli si addiceva». Per curiosità infantile gli domando quale canzone sceglierebbe. Michele non esita un attimo: «I giardini di marzo». E per togliermi il timore che forse la musica di Battisti non risultasse di buon gusto ai palati raffinati, chiedo il parere di Vittorio Montalti, affermato compositore contemporaneo. Mi scrive: «Comunque, un mito. Ci sono cresciuto. Grande qualità!».

I Giardini di marzo a Poggio Bustone (Rieti)

I Giardini di marzo a Poggio Bustone (Rieti)

Feliciano Mostarda, proprietario della Locanda francescana a Poggio Bustone, mi accoglie con simpatia e ricorda: «Lucio veniva per mangiare e parlare con mio nonno. L’ultima volta che lo vidi a Poggio, sentii una nota triste, era seduto in una Volvo blu, assorto, e il suo volto era stanco. Sei mesi dopo se ne sarebbe andato». Poi mi mostra una foto di Battisti che stringe la mano ad Allan Clarke, cantante britannico del gruppo The Hollies. Scendendo verso valle, con l’artista nel cuore, m’incuriosisce un cartello stradale con la scritta: I giardini di marzo. In quell’angolo di verde si erge una statua di bronzo, è Lucio con la chitarra e il suo mezzo sorriso. Attorno al monumento stanno giocando due bambine, si chiamano Sofia e Irene. Mentre mi avvio auguro loro, un giorno a venire, di ascoltare con la persona amata La canzone del sole. E provare una grande emozione.