In apertura Arturo Galansino di fronte ad Amore-Attis di Donatello, in mostra a Palazzo Strozzi © Ela Bialkowska Okno studio

La fisicità dell’arte è una scintilla che si accende e scatena il rapporto tra opera e visitatore. Sviluppiamo molto il digitale, ma la visita di una mostra è sempre una grande emozione». Parole di Arturo Galansino, che del merito ha fatto la sua impronta di vita. Nato nel Monferrato, studi a Milano e Parigi, curatore al Louvre e successivamente alla National Gallery di Londra, dove ha vissuto e lavorato a lungo e «dove l’arte vive una dimensione contemporanea e bellissima», afferma. Dal 2015 è direttore generale della Fondazione Palazzo Strozzi di Firenze, «città che scatena negli artisti contemporanei un’ulteriore forza creativa, rendendoli particolarmente attivi», aggiunge.

C’è una mostra che hai visitato e avresti voluto allestire tu?

Direi di no. Nel corso della mia carriera, quelli che sembravano sogni hanno trovato tutti una realizzazione. Come la mostra attuale su Donatello, un evento storico. In esposizione, vi sono opere che in 600 anni mai si erano mosse da dove l’artista le aveva collocate, come i tre pezzi del fonte battesimale del Duomo di Siena o le porte bronzee della Sacrestia vecchia nella Basilica di San Lorenzo a Firenze, disponibili grazie a una campagna restauri appena conclusa.

Quando ti sei reso conto che saresti diventato un professionista della cultura?

Molto spesso dietro un obiettivo c’è la passione e così è stato per me. Dopo gli approfondimenti accademici, mi sono reso conto che preferivo occuparmi di «rendere fruibili le opere d’arte più che limitarmi a studiarle. Ho svolto il post dottorato all’Institut national d’histoire del’art di Parigi, un ambiente molto ricco e stimolante che mi ha consentito di entrare al Louvre per collaborare a un’importante mostra sul pittore Andrea Mantegna. Ci sono rimasto per quattro anni.

Galansino con le opere di Jeff Koons, esposte a Palazzo Strozzi nella mostra Shine

Galansino con le opere di Jeff Koons, esposte a Palazzo Strozzi nella mostra Shine © Ela Bialkowska Okno studio

E dopo?

Sono andato a Londra, dove esiste una visione più moderna del mondo museale, priva dei problemi legati alla gestione pubblica che ci sono in Italia o in Francia. Il modello anglosassone gode di una governance più libera. Sono stati anni molto stimolanti, prima alla National Gallery poi alla Royal Academy of Arts, e utilissimi per il lavoro che sto portando avanti ora nel nostro Paese, dove esiste uno stretto rapporto tra pubblico e privato.

Come sei arrivato a Firenze?

Non conoscevo la Fondazione Strozzi quando mi hanno chiamato per un colloquio. Mi sono informato e ho intravisto la possibilità di agire con la medesima modernità di gestione londinese. Devo ringraziare il consiglio d’amministrazione che ha avuto fiducia nella mia proposta di totale discontinuità rispetto al passato, puntando molto sull’arte contemporanea. Questo perché Firenze è una città internazionale, al crocevia delle rotte ferroviarie, dove poter offrire eventi di alto livello. Il pubblico risponde con entusiasmo, si fida delle nostre proposte. Sceglie una mostra contemporanea a Palazzo Strozzi e poi si gode la città rinascimentale. Abbiamo aumentato l’offerta e generato sul territorio un impatto economico di 50 milioni di euro, con un bilancio che si sostiene per l’80% tra bigliettazione e sponsor privati. E una grande sintonia tra la nostra visione e la politica culturale del Comune e della Regione Toscana.

Hai vinto una bella sfida e dimostri che la meritocrazia esiste.

Ho avuto fortuna nel trovare persone capaci di valutare i risultati. Penso che Palazzo Strozzi sia “il” luogo della meritocrazia, a cui si aggiunge una totale trasparenza dei metodi gestionali. Una sorta di scatola di vetro che utilizza procedure internazionali. Questa è la ragione che ci ha consentito di organizzare la mostra su Donatello: un progetto unico, che ha alle spalle cinque anni di lavoro e resterà un evento storico.

Arturo Galansino con il giornalista Andrea Radic

Arturo Galansino con il giornalista Andrea Radic

Parlando di te, dove sei cresciuto?

A Nizza Monferrato, in provincia di Asti, terra di Barbera e tartufi. Poi ho studiato a Milano e Torino, prima di trasferirmi in Francia.

Se tornassi bambino quale sarebbe il profumo della tua infanzia?

Quello dei cavalli, una passione che mi accompagna fin da ragazzo, quando mi impegnavo nelle competizioni di salto. Tornato in Italia, ho ripreso a gareggiare con soddisfazione e lo faccio tutt’oggi. È uno sport dove serve dedizione perché le variabili sono innumerevoli, a noi tocca metterle in ordine affinché il cavallo salti con serenità.

Ti manca la dimensione di Parigi o di Londra?

Pensavo sarebbe accaduto ma mi sbagliavo. Firenze è una città cosmopolita, dal potenziale straordinario, dove passa moltissima gente. Regala una marcia in più agli artisti contemporanei che vengono a lavorare qui, perché stimola enormemente la loro creatività.

I tuoi luoghi del cuore nella città del Giglio?

Il museo Stibbert o quello di storia naturale La Specola: due luoghi pazzeschi, veri gioielli. Amo anche passeggiare nei giardini di Villa Bardini, al parco delle Cascine o in Oltrarno, tra antiquari e piccoli negozi.

Senti il privilegio di avere un rapporto personale con le opere d’arte?

Sono a contatto con autentici capolavori e li riposiziono affinché siano fruibili a tutte le categorie di pubblico. L’allestimento delle mostre è una sorta di sciarada, mi diverto moltissimo a costruire il rapporto tra un’opera e l’altra: è questa la magia curatoriale. Può sembrare un concetto relativo, ma esistono parametri oggettivi, fatti di equilibri e relazioni.

 

Il tuo rapporto con il treno?

Lo uso per tutti i miei viaggi in Italia e vivo sempre momenti straordinari. Innanzitutto, mi aiuta a lavorare, perché in treno posso leggere ciò che ho lasciato indietro e rispondere a tutte le mail. Sono comodo, rilassato e mi sento più efficiente, senza dimenticare che inquino molto meno. Tutti dovremmo usarlo maggiormente.

Ami stare ai fornelli o a tavola?

Il miglior abbinamento è quello tra un’opera d’arte e un calice di vino.

Ti colpisce mai la sindrome di Stendhal?

Difficile che ne soffra, sono troppo razionale. Ma indubbiamente l’arte accresce i nostri sensi e la nostra potenza vitale, come mi disse l’americano Jeff Koons quando era qui a Firenze. L’arte mi dà la forza di superare le difficoltà.

Tra gli innumerevoli protagonisti dei tuoi eventi, c’è una figura che ti ha conquistato particolarmente?

Marina Abramović. Non solo per il grande successo della sua mostra, ma perché stare vicino a una persona così carismatica, dolce, forte e profonda è stata un’esperienza umana straordinaria.

Prossimi progetti a Palazzo Strozzi?

Una rassegna sull’arte digitale che coinvolgerà anche il cortile e la Strozzina, lo spazio espositivo nei sotterranei della Fondazione. E a settembre una grande mostra del danese Olafur Eliasson, che lavora su elementi come l’aria e la luce con una grande coscienza ecologica. Pare che utilizzerà tutto il palazzo come se fosse una tela, carpendone gli spazi e le atmosfere. Sono sicuro che sarà un effetto wow molto interessante.

Articolo tratto da La Freccia