In apertura Baya Mahieddine. Femme au panier et coq rouge (1947) Collection Adrien Maeght, Saint Paul © Photo Galerie Maeght, Parigi

Magliette a righe orizzontali, ricci genuini, eloquenza fluida e una lucida e affabile capacità di raccontare, ricercare e intercettare il meglio dell’arte contemporanea. Oltre a un curriculum in continua evoluzione che da Milano l’ha portata a studiare, vivere e lavorare a New York. Cecilia Alemani, classe 1977, è la curatrice della 59esima Esposizione internazionale d’arte, organizzata dalla Biennale di Venezia presieduta da Roberto Cicutto.

Tra il Padiglione centrale, i Giardini e l’Arsenale, dal 23 aprile al 27 novembre, espongono 213 artiste e artisti, di 58 nazioni, con 1433 opere e 80 nuove produzioni. Una Biennale che vuole essere soprattutto una colta, libera e leggera boccata d’aria. O un sorso di latte confortante.

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Opera di Baya Mahieddine

Cecilia Alemani, foto di Andrea Avezzù/courtesy La Biennale

Cecilia, ci stai lavorando da due anni. Com’è la tua Biennale?

Rispondo come spero che sia: un evento gioioso in cui poter celebrare ciò che amiamo di più, l’arte. In presenza fisica e in comunione di corpi e di sensi così a lungo isolati e tenuti a distanza. Nonostante la difficile situazione internazionale, mi auguro che la mostra festeggi la voglia di stare insieme.

Hai scelto un titolo poetico, surreale, generativo: Il latte dei sogni. Cosa significa?

Mi piace rubacchiare dalla letteratura parole o frasi che mi colpiscono. Il titolo l’ho preso da un libro di favole di Leonora Carrington, in cui si descrive un mondo magico e immaginario nel quale la vita viene costantemente reinventata ed è possibile trasformarsi con libertà, cambiare senza imposizioni e gerarchie, diventare altro da sé. Ho scelto questa compagna di viaggio perché è una scrittrice importante per come ha riflettuto su temi connessi all’identità.

Memoria e fonti di ispirazione sono temi essenziali di questo progetto. Quali sono state le più generative?

Tra le principali proprio i romanzi di Carrington, della quale ho letto molto e scovato tematiche attuali. Poi, in questi due anni di lunga programmazione, ho avuto il tempo di guardarmi indietro e cercare protagoniste e protagonisti del passato che, in un contesto diverso, hanno affrontato contenuti e preoccupazioni simili a quelle odierne. Un corollario di riferimenti e di eco diversi tra loro che vanno ben oltre il XXI secolo, per intrecciare la storia diversamente e magari arricchirla in maniera educativa.

Hai avuto un fitto dialogo con tante artiste e artisti. Da lì sono emerse molte domande, poi divenute progetti. Quali le più urgenti?

Soprattutto quelle “resistenziali” che poco avevano a che fare con l’arte che, anzi, ci sembrava quasi un tema superfluo dati i tempi immobili e l’incertezza sul futuro. Sono emersi quesiti più ampi ed esistenziali sulla ridefinizione del genere umano, per esempio, rispetto a una forza invisibile e devastante come il virus. L’indagine su di noi e dentro di noi è stata forte.

Cosa rappresenta la riapertura della Biennale?

Incarna l’idea di essere insieme. Passeggiare e vedere l’arte dal vivo in quel grande museo a cielo aperto che è Venezia.

Hai chiamato a partecipare molte artiste, storiche e giovani, anche poco conosciute, dando un indirizzo molto paritario a questa edizione.

Oltre l’80% dei partecipanti sono donne, ho voluto imprimere un segno forte e invertire una tendenza. Fino a oggi è stato esattamente il contrario: le donne presenti in Biennale sono state una percentuale residua, ma nessuno si è mai posto il problema. Ho lavorato con moltissime di loro e questo mi ha facilitata, a Venezia vorrei far apprezzare i loro lavori. Mi interessava rileggere la storia dell’arte e anche dell’Esposizione guardando a quei momenti in cui la figura femminile è stata oscurata forzatamente.

Il Padiglione Centrale ai Giardini a Venezia

Il Padiglione Centrale ai Giardini (Venezia), foto di Francesco Galli

L’arte è spazio senza frontiere, di dialogo e pace. Mentre scriviamo questa intervista state lavorando per aprire il padiglione ucraino e quello russo, nonostante la guerra...

La Russia ha rinunciato a partecipare, mentre lo spazio dedicato all’Ucraina apre e ci stiamo impegnando per questo. L’artista Pavlo Makov, protagonista del padiglione, è riuscito a uscire dal Paese. Sono tempi molto complicati e dolorosi, ci chiediamo se abbia senso parlare di arte in questa situazione, ma abbiamo percepito che le curatrici del padiglione vogliono proprio parlare di arte e non di guerra. Magari sono solo gesti simbolici ma la cultura ha la capacità di lanciare messaggi forti e la Biennale può essere il luogo giusto.

Partecipano nuovi Paesi, anche molto piccoli.

Uganda, Repubblica del Camerun, Namibia, Nepal, Sultanato dell’Oman sono al loro debutto a Venezia. Anche se qualcuno afferma che sia un modello obsoleto perché non esiste più il concetto di Stato-nazione rappresentato dai padiglioni, la bellezza della manifestazione è proprio questa: dare la possibilità di partecipare anche a nazioni meno conosciute, come una piccola isola caraibica. Una finestra su mondi molto lontani e una voce corale in sottofondo.

Il corpo nelle sue varie declinazioni è uno dei temi centrali. Cosa ci racconta?

È il pivot della mostra ed è diventato la piattaforma e il palcoscenico per una riflessione più esistenziale. Attraverso il corpo ci relazioniamo con l’esterno e in Biennale ne raccontiamo le metamorfosi, il rapporto con il Pianeta o la tecnologia, indaghiamo sulla definizione di umano.

Hai dato molto spazio alla formazione, esponendo anche opere di studenti.

Lanciamo per la prima volta la Biennale college arte con programmi di supporto e attività per artisti agli esordi. Quattro di loro sono stati selezionati ed espongono all’Arsenale nella rassegna principale, confrontandosi con le stesse problematiche di spazio e allestimento dei senior.

Quali sono le nuove avanguardie e tendenze?

Mi sono accorta che questa è un’edizione molto pratica, materica, pragmatica. Non è presente molta arte digitale, ma tanti quadri, sculture, installazioni. Non so se ci sia un ritorno alla fisicità dell’oggetto arte, sicuramente molto è lo spazio dedicato all’introspezione. Dopo tanta solitudine e stanzialità, artiste e artisti si sono guardati dentro per trovare spunti e ispirazioni. Hanno indossato lenti più personali, oniriche e a volte surreali per scandagliare la realtà.

Come si diventa curatrice della Biennale d’arte di Venezia?

Non c’è una strategia da seguire. Mi ha aiutato curare il Padiglione Italia nel 2017, poi è importante avere una buona dose di apertura internazionale e l’idea globale dell’arte. Ma anche un po' di fortuna.

Opera di Elle Pérez

Elle Pérez, Petal (2020/2021) courtesy l’artista; 47 Canal

Una tua giornata di lavoro?

Mi sveglio prestissimo con l’ansia, facendo piano perché tutti ancora dormono, e inizio a rispondere a centinaia di mail arrivate durante la notte perché a Venezia, invece, è mattino. Accompagno mio figlio a scuola e mi attacco a interminabili call che durano ore. Cerco di lavorare ed essere una buona madre, ma è una corsa contro il tempo. Con l’inaugurazione, a fine mese, spero di vedere la luce in fondo al tunnel.

Chi sono stati i maestri che ti hanno aiutata e ispirata?

In Italia il critico e curatore Francesco Bonami: la sua eccentrica Biennale del 2003, tra le prime che ho visto, mi ha trasmesso energia, entusiasmo ed effervescenza. A New York Marcia Tucker, fondatrice del New Museum of Contemporary Art e mia docente al master per curatori al Bard College. Mi ha insegnato a essere aperta a tutto, al bello, al brutto, al disgustoso e al mostruoso, senza avere paura di ricercare oltre la bellezza. Di pensare all’arte come una convergenza di gusti, stili e discipline diverse e cacofoniche da cui trarre la forza per aprire porte nuove.

Quale libro hai in borsa in questo momento?

Ancora solo lavoro. Appena possibile avrò bisogno di un buon romanzo, non vedo l’ora.

Come vorresti che fosse ricordata questa tua Biennale?

La mostra della rinascita e del ritrovarsi insieme. Transtorica perché mixa più periodi. E l’edizione delle donne, anche se non voglio etichettarla come tale. Ma è giunta l’ora che lo sia.

La domanda delle domande. A cosa serve l’arte?

A farci vedere il mondo con una lente che a volte è intimista e critica ma ci aiuta ad aprire le prospettive, cambiare i punti di vista e scorgere quello che ci sta attorno in maniera diversa.

Articolo tratto da La Freccia.