In apertura, un treno Settebello alla stazione di Milano Centrale negli anni ‘80 © Archivio Fondazione FS Italiane
È un uomo del Sud che vive a Milano da 40 anni. Negli anni ‘80, il treno lo trasportò da una terra aspra, la Basilicata, verso l’Università Cattolica dove, entrato da studente, oggi insegna Letteratura italiana. Giuseppe Lupo, docente, scrittore e saggista, ha un rapporto stretto con questo mezzo di trasporto, spesso presente nei suoi romanzi, che l’ha allontanato dagli affetti proiettandolo nel cuore della modernità, in una città dove si è affermato come solo nei sogni può accadere.
Cosa metteva in valigia per quei viaggi?
Oltre ai maglioni e alle camicie, tipico corredo di uno studente fuori sede, portavo con me un misto di buio e di luce, quel sentimento che i milanesi chiamano “magone”, ma anche tanta fiducia, speranza, utopia. Più sogni che sicurezza, insomma. Il treno filava dritto nella pianura lombarda, ma i pensieri che mi giravano in testa non erano così lineari. E, tuttavia, lo scorrere delle ruote sui binari mi aiutava a mettere ordine.
Giuseppe Lupo
La Treccani ha pubblicato online uno speciale, curato da Cristiana De Santis, che indaga questo mezzo dal punto di vista letterario, filosofico e linguistico. Nell’articolo Sui treni della modernità mancata lei nota un’assenza del treno nella letteratura contemporanea: come se lo spiega?
Perché quasi sempre i treni sono raccontati soltanto come mezzi di trasporto, come strumenti di comunicazione mentre avrebbero potuto essere raccontati come luoghi che presuppongono un vivere insieme. In fondo, per il tempo in cui si rimane a bordo, si crea una specie di comunità con chi siede di fronte o di fianco. Ma il motivo di questa assenza risiede anche nel fatto che, da sempre, il treno rappresenta un elemento che è stato letto come la rovina della quiete e della natura. Siamo una nazione con una cultura spesso più antimoderna che moderna.
Diversa, invece, è la situazione nella cinematografia e nella musica italiana, dove è molto presente. Come mai questa differenza?
Film e canzoni hanno saputo cogliere meglio il passaggio della nostra nazione alla modernità. Probabilmente, la letteratura ha camminato un passo indietro, forse non volendo comprendere quanto di importante ci fosse nella tecnologia, anzi temendo i suoi effetti. C’è molto altro al di là dell’immagine del treno che rompe il silenzio e l’incanto della natura. Il problema non è mai stato essere pro o contro, ma semplicemente mettersi nella condizione di comprenderne il significato e le trasformazioni.
A Roma è in corso La memoria delle stazioni, una mostra in cui si raccontano otto scali ferroviari italiani attraverso foto storiche e racconti letterari. Qual è il suo preferito?
Ne direi due, che sono l’alfa e l’omega del mio paradigma di viaggiatore: una piccola stazioncina di una linea locale, la Potenza-Foggia, quella da cui sono partito per andare a studiare nel capoluogo lombardo e dove transitava un minuscolo treno a cherosene. E poi la Centrale di Milano, imponente, monumentale: con le sue scale e i suoi atrii, mi sembrava un’enorme macchina da scrivere. In tempi e in momenti diversi, entrambe hanno significato molto sul tema dell’addio e del ritorno. Piaga e delizia.
Esce in questo mese il suo ultimo romanzo, Tabacco Clan, edito da Marsilio: c’è un treno anche qui?
Il libro racconta di una comunità di studenti fuorisede che si incontrano in un collegio a Milano agli inizi degli anni ‘80, quando l’Italia stravinse i Mondiali di Spagna. Quei ragazzi, come tanti altri, si muovevano in treno. E anche per loro, com’era stato per me, ogni carrozza conteneva buio e luce, magone e utopia.
Articolo tratto da La Freccia
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