In apertura, Stupore di Zeruya Shalev, edito da Feltrinelli, pp.313 € 19

Non c'è dinamica coniugale o familiare che nei romanzi di Zeruya Shalev alla fine non si risolva in conflitto. Mariti e mogli, genitori e figli, fratelli e sorelle, tutti vulnerabili e recriminanti, oltremodo risentiti, sogghignanti, gravati da sensi di colpa spesso immotivati ​​ma pur sempre tormentosi, si volgono gli uni contro gli altri invocando ciascuno il proprio diritto a esistere. E cioè a dibattersi nella confusione che impedisce alle loro vite di raggiungere il porto pacifico di una relazione risolta, costringendole nel mare in burrasca che annienta e disperde, eppure, stranamente, tonifica, perché niente è più vitale del conflitto.

In Stupore Shalev offre la ribalta ad Atara, architetta cinquantenne che al

primo marito, il mansueto e sollecito Doron, ha preferito il più introverso e

litigioso Alex, narcisista e permaloso, ma appunto vitale, infinitamente

più vitale nel suo egoismo, talvolta sfacciatamente esibito perché insopprimibile, dell'ex marito, pure dotato di un buon senso disarmante.

Anche Atara è inquieta e non meno litigiosa, inspiegabilmente infelice, nonostante la realizzazione del suo desiderio più grande, sposare  quell'uomo coniugato come lei, di nome Alex. Anni prima non ha esitato  a strappare Abigail, la figlia avuta da Doron, a un contesto di idilliaca  serenità chiedendole, per amor suo, di reinventarsi in una nuova famiglia,  con dei fratelli acquisiti, e il patrigno, il pungente Alex, sempre pronto  a contenderle l'adorata madre. E adesso, nel fare i conti con il proprio  egoismo e il senso di colpa che ne deriva, Atara si risolve a pensare che dopotutto ne è valsa la pena, perché vivere accanto ad Alex in modo  conflittuale l'ha resa migliore rispetto alla donna che viveva accanto a Doron in modo pacifico.

E che dire di Rachel, l'altro protagonista del romanzo: dall'alto dei suoi 90 anni, un terzo dei quali spesi nella resistenza contro l'invasore inglese, al tempo della fondazione dello Stato di Israele, contempla ormai fuori dai giochi la sua vita passata, sentendosi al tempo stesso invischiata nel presente non tanto dai ricordi che rocambolescamente la portano sulla strada di Atara, alla quale dovrà rivelare un segreto sul padre che nessuno conosce, quanto dai rapporti involuti con il figlio maggiore Yair, astioso e astrattamente rivendicativo, e ciononostante più amato del secondogenito, Amichai, il rabbino, un uomo gentile e ponderato che si prodiga senza riserve per la madre inquieta, ancora combattiva e sarcastica. Lotta per riportarla sulla via maestra della salvezza interiore, una mano tesa che Rachel rifiuta infastidita, come rifiuta, nel suo laicismo orgoglioso, la religiosa devozione a un'idea di bontà superiore. La saggezza, sembra ci dica Shalev, non appartiene veramente alla vita. Chi sceglie di vivere lotta. E sbaglia. Senza moralismi. Contro ogni forma di stoicismo. Sbagliare, sbagliare e ancora, sbagliare. Altra possibilità non è data.

Articolo tratto da La Freccia