In apertura, Trust di Hernan Diaz, edito da Feltrinelli, pp. 384 € 19
Che l’ultimo romanzo di Hernan Diaz - autore che non ha bisogno di presentazioni ma, per chi avesse perso qualche pezzo, stiamo parlando del finalista al Premio Pulitzer 2018 e al PEN/Faulkner Award 2018 con Il falco - sia un libro ambiguo, polifonico, sfaccettato, lo si evince già dal titolo. Trust è una parola che in inglese ha molteplici accezioni. Due tra tutte, poste a emblema delle diverse anime del romanzo.
C’è, da una parte, il significato finanziario: quando parliamo di trust, in gergo economico, ci riferiamo a una coalizione di imprese, a un’unione volta all’aumento dei profitti e al controllo di una fetta di un determinato mercato. A un primo sguardo, scopriamo che è questo il filo conduttore del libro di Diaz: il mondo finanziario, i magnati di Wall Street, il crollo della Borsa nel 1929. Il denaro e la ricchezza, le due entità che, con la loro aurea quasi mitica, governano gli Stati Uniti (e non solo). Trust è, in effetti, la storia di un magnate di successo, Andrew Bevel, che non solo è sopravvissuto al terribile martedì nero, ma ne ha fatto il trampolino per il proprio successo.
La parola trust, però, ha anche un’altra accezione: quella di fiducia. Ed è su questa parola che si fonda l’altra anima del libro, la sua caratteristica distintiva. La particolarità del romanzo di Diaz è quella di non essere solo un romanzo. La vicenda di Bevel è infatti raccontata da quattro punti di vista diversi, a ognuno dei quali corrisponde una differente forma narrativa. Trust si apre con un classico romanzo statunitense - scritto deliziosamente - in cui viene riportata la storia del magnate e della sua moglie defunta, Mildred.
Segue un memoir, un’autobiografia incompiuta dello stesso Bevel che, mosso dall’indignazione per quanto è stato scritto sul suo conto nel romanzo, è impaziente di raccontare la sua verità. E ancora: nella terza parte a parlare è Ida Partenza, la ghost writer a cui il magnate ha affidato la propria autobiografia, decisa a svelare ancora un’altra versione dei fatti. Infine, a chiudere il libro di Diaz, è la voce di Mildred Bevel che si fa strada in una delicatissima forma diaristica. Quattro punti di vista, quattro finestre aperte sulla stessa vicenda pronte a smentirsi reciprocamente, a complicare il giudizio del lettore, ad assommare dettagli.
È metaletteratura, è un gioco di stile, certo, ma è anche la resa letteraria di un dato incontrovertibile: come narratori della nostra personale verità siamo tutti inaffidabili. Senza esclusioni. Un consiglio spassionato: il modo migliore per godere di questo romanzo è tuffarcisi in uno stato di verginità, senza aver letto la quarta di copertina, manuali di istruzioni o recensioni. Ma, se siete arrivati fin qui, è ormai troppo tardi. Leggetelo ugualmente o, tutt’al più, regalatelo a un amico ancora ignaro.
Articolo tratto da La Freccia
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