Medialogando di giugno si apre con un tocco di leggerezza e colore, in sintonia con il sentiment dell’incipiente estate e di un’auspicata new normalcy. Il colore è il rosso, come la capigliatura dell’intervistatore e dell’intervistata, Pialuisa Bianco, direttore di Longitude, un mensile italiano scritto in inglese e letto in tutto il mondo. Ecco, la leggerezza che ha contraddistinto l’incontro, chiuso sulla constatazione di quel fattor comune, non confligge con la densità del pensiero, come ci insegnò sul declinare del secolo scorso Italo Calvino. Ancor meno quando si parla di giornalismo di qualità. Le vicende professionali e personali di Pialuisa fanno di lei un’interlocutrice capace di interpretare con lieve e naturale acutezza gli eventi, conducendo a esiti mai scontati. Pialuisa è stata, nel dopoguerra, la prima donna a essere nominata direttore di un giornale, L’indipendente. Era il 1994. Oggi che ancora tiene banco il tema della parità tra i generi, così racconta quel primato, trasformatosi in un trampolino verso altri prestigiosi traguardi: «Quando diventai direttore, quasi tutte le testate internazionali mi cercarono. Ero la prima in tutta Europa. Sembravo un fenomeno da baraccone, ma ero soltanto un fenomeno statistico. Se così non fosse bisognerebbe concludere che tutti i giornalisti maschi diventano direttori. Per dirigere un quotidiano nazionale bisogna avere esperienza in economia e politica, aver fatto l’inviato, conoscere le lingue e avere un ampio patrimonio di conoscenze, che io avevo. All’epoca, il vivaio delle giornaliste con queste caratteristiche era ancora esiguo. Statisticamente era capitato a me. Intanto, nel mondo si sono moltiplicati i direttori donna di testate nazionali autorevoli, in Italia no. E questo ti dice come camminiamo a rilento, nel nostro Paese».

La tua modestia non può far velo alle tue qualità, indispensabili per arrivare dove sei arrivata. Però, dici, quel che conta è costruirsi un ricco curriculum che ancora oggi in Italia poche giornaliste vantano. Quanto vale il tuo nel ruolo di direttore di Longitude?

Guarda, sono arrivata lontano solo in senso geografico, perché ho girato il mondo. E questo conta molto, perché grazie a un tessuto di relazioni internazionali costruito in quasi 20 anni ho conosciuto e potuto raccogliere intorno alla rivista una rosa di collaboratori di altissimo livello, tedeschi, inglesi, francesi, americani, giapponesi, cinesi…

 

Perché non c’è solo il giornalismo, nel tuo curriculum.

No, sono stata anche consigliere strategico per tanti anni e con tanti ministri degli Esteri diversi, e ho fondato il Forum strategico del ministero degli Esteri, un tavolo interdisciplinare che oltre ai diplomatici metteva insieme militari, agenti dell’intelligence, fisici nucleari, economisti e tante altre figure a seconda dei dossier da analizzare.

Nell’elenco dei collaboratori pubblicato sul vostro sito ho trovato persino Mario Draghi.

Sì, quando era il governatore della Banca d’Italia. Poi dalla Bce era impensabile una sua collaborazione. Ma quando è diventato presidente del Consiglio ho ripubblicato un suo articolo che risaliva esattamente a dieci anni prima e trattava delle ripercussioni nell’economia mondiale del disastro di Fukushima. Il titolo era Act fast, follow through, follow up, che sembra un po’ il mantra anche di Draghi presidente del Consiglio: agire rapidamente, andarci dentro e trarre le conseguenze. L’ho ripubblicato così com’era, proprio una copia anastatica, e nel mio editoriale gli ho augurato buon lavoro. Gli ho mandato una copia, lui ha letto, apprezzato e mi ha scritto ringraziandomi.

 

Raccontaci meglio cos’è Longitude.

Quel che è Longitude lo dice bene il sottotitolo: The Italian Monthly on World Affairs, il mensile italiano degli affari internazionali. Quindi economia, finanza, politica in senso stretto, geopolitica, relazioni internazionali, scienza e cultura, tutto ciò che ha dimensione internazionale, con uno sguardo alla complessità. Dai vaccini al riproporsi del conflitto tra Israele e Palestina, per stare a temi dei nostri giorni, da quel che capita nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o nella Nato fino alla domanda se risorgerà l’inflazione dopo l’esorbitante iniezione di liquidità immessa nell’economia per parare i guai della pandemia.

Longitude ha 11 anni di vita e già questo, nell’attuale panorama dell’editoria, è un sintomo di buona salute. Qual è la ricetta?

Credo in primo luogo la scelta editoriale, perché la rivista viene pubblicata direttamente in inglese e ha collaboratori qualificati sparpagliati nel mondo, come si conviene del resto a qualcosa che parla di politica internazionale, è distribuita worldwide ed è sfogliabile sul web. Insomma, Longitude ha dotato l’Italia, per la prima volta, di una testata di analisi di affari internazionali capace di raggiungere i nostri interlocutori esteri. Altri esperimenti, anche nobili, sono stati concepiti per diffondere una cultura internazionalistica nel nostro Paese. L’idea della rivista, invece, è essere degli italiani che parlano delle cose del mondo, insieme a collaboratori di altre nazionalità. E, soprattutto, capaci di interloquire con i nostri interlocutori esteri. Ecco, credo sia stata questa la ricetta vincente.

Copertina rivista Longitude

Certo la qualità dei collaboratori fa la differenza.

Indubbiamente, insieme al fatto che il parterre è molto eterogeneo e include figure di diverso orientamento politico o con posizioni contrastanti sui vari temi. Ciò fa di Longitude anche una tribuna di discussione e quando affrontiamo temi internazionali delicati questo anima un dibattito di livello, che aiuta il lettore a comprendere meglio quello che accade.

 

Offrire punti di vista diversi è qualcosa che altri direttori ospitati da questa rubrica portano come un vanto della propria testata.

Perché si è autorevoli non quando si cerca di indottrinare i propri lettori ma quando si trattano per quello che sono. Intelligenti e assetati di informazioni interessanti, capaci di formarsi autonomamente un’opinione se offri loro la possibilità e gli strumenti per farlo. Questo non significa non avere una linea, perché l’editoriale la espone ed esprime, ma si possono e debbono offrire punti di vista diversi, che si armonizzano in un tavolo di discussione libero e interdisciplinare.

Analisi e approfondimento, quindi. Come mensile rifuggite dalla caducità e prolissità dell’attualità nella quale affoghiamo ogni giorno e che si trasformano in un simulacro dell’informazione.

Sì, infatti quello che viviamo oggi, troppo spesso, non è più giornalismo, ma una pura registrazione di ciò che accade, fatta talvolta anche malamente, perché la circolazione immediata delle notizie viene spesso inficiata da pregiudizi, bias come direbbero gli americani. Quante edizioni di telegiornali esistono nel nostro Paese nell’arco delle 24 ore, quanti blog, quanti notiziari via web? Una polverizzazione delle fonti di informazione, tra qualificate e meno qualificate, che diventano una sorta di pozzanghera sovraffollata. Difficile abbeverarsi.

 

Invece che cosa occorrerebbe?

Uno spazio diverso, per rivendicare ciò che è proprio del giornalismo, ossia la creazione di news. E per creare news occorre lavoro, ricerca, studio, selezione degli argomenti e dei temi da approfondire. Quello è giornalismo, selezionare i fatti cercando di comprendere quali sono o diventeranno rilevanti creando tendenze. Sviscerare poi le tendenze e offrire al lettore un insieme di informazioni indispensabili perché si orienti nel mondo, nel suo Paese, nel suo settore di lavoro, nei suoi interessi culturali. Perché ciò che fa notizia non è semplicemente ciò che accade.

Tutto ciò costa. In questa rubrica lo scriviamo spesso: la qualità costa.

Sì, è molto più faticosa e, soprattutto, più costosa. Perché ciò che costa nel giornalismo non è la stampa, la carta, le fotografie, convinzione erronea che ha spinto molti sul digitale. Quel che costa è ingaggiare persone qualificate, capaci di produrre news, e sguinzagliarle per il mondo. Qualunque sia il mezzo con cui si esprime il giornalismo, quel che costa è il modo di realizzare i servizi, che richiede approfondimento e ricerca sul campo. Non esistono più i giornalisti che vanno in giro e non lo sono certo quelli che nei talk show televisivi rincorrono per la strada i parlamentari di turno per strappargli una dichiarazione. Quello è spettacolo. Senza contare che siamo inondati da dichiarazioni fatte direttamente dai politici sui social.

Copertina rivista Longitude

Sul web Longitude si limita a riproporre la sua versione cartacea. Avverto una diffidenza verso l’informazione online e i social, le ragioni le hai ben spiegate, ma quel mondo ha messo in crisi anche l’editoria tradizionale.

Sì, ma è accaduto perché nei loro giornali gli editori scimmiottano il modello dei social network, anziché differenziarsi. D’altra parte non è un fenomeno nuovo, assomiglia a quello che aveva già peggiorato il giornalismo nazionale quando le grandi testate inseguivano la televisione. Ma, oggi, rincorrere la miriade di fonti di informazione che si susseguono minuto per minuto è una formula perdente. Perché l’indomani, nel giornale, il lettore non trova né qualcosa che non sa né una selezione intelligente. Trova a volte dei commenti o delle polemiche, ma sarebbe risibile se un quotidiano pensasse di potersi reggere solo sull’esercizio retorico. E, quindi, il lettore trova un prodotto superfluo.

Problema che alcune testate hanno tentato di risolvere cercando di acquisire, diciamo così, una forte personalità.

È vero, la necessità di differenziarsi è diventata una consapevolezza diffusa nel mondo editoriale. Molti ci provano adottando una linea politica identitaria. Ma ciò, fatalmente, trasforma il quotidiano in un quotidiano di nicchia. O in una chiesa. Il lettore lo sceglie perché riconosce in quelle pagine le sue credenze. Non scopre nulla, non prova il brivido del confronto. Il dato di fatto è che le grandi testate nazionali sono tutte in declino, dal milione di copie che le principali vendevano qualche anno fa a circa il 10% di oggi. Ciascuno con un numero di lettori in libertà che non è stato recuperato da nessun altro giornale, né via web né su carta. Solo una grande dispersione, con tante altre piccole testate che nuotano in un piccolo laghetto con lettori affezionati. Il risultato è che il panorama editoriale nazionale oggi è privo di una vera grande testata che possa competere con Le Monde in Francia, Die Welt o la Frankfurter Allgemeine Zeitung in Germania, The Times o il Financial Times a Londra, il New York Times o il Wall Street Journal negli Stati Uniti.

 

In estrema sintesi, nessuno me ne voglia, quel che si è persa è l’autorevolezza. Ossia la cifra che persegui con Longitude. In questo però, va detto, la dimensione del mensile ti aiuta.

Certo, l’abbiamo scelta proprio perché vogliamo analizzare e approfondire. Il mensile ci offre questa possibilità, senza perdere di vista temi di attualità. Ti faccio un esempio: alcuni numeri fa abbiamo dedicato la copertina ai vaccini, con il titolo Vax populi. Se ne discuteva a livello planetario, in Europa c’era il caso AstraZeneca, siamo stati in grado di affrontare questi argomenti dibattuti e attuali con la capacità di andarci dentro con maggiore profondità.

E a giugno?

Abbiamo in copertina l’India, una potenza emergente e un caso molto speciale. Perché è caotica, disorganizzata, molto popolosa, con contraddizioni immense da tutti i punti di vista, colpita in modo inesorabile dall’ultima ondata della pandemia, anche a causa dei dissesti e della sua disorganizzazione strutturale. Eppure, pensa alla contraddizione, questo gigante che annaspa nell’acqua come uno degli elefanti indiani, è un pilastro strategico, in questo momento in particolare, per gli Stati Uniti e l’Occidente. Perché è un pilastro anticinese. Ecco che, partendo da un momento di crisi acuta e di grande attualità, elaboriamo una visione e un’analisi più estese, poniamo domande, invitiamo alla riflessione. Se l’Occidente punta sull’India, nello stesso tempo deve essere consapevole di avere a che fare con una realtà che si può sgonfiare da un momento all’altro.

Intervista tratta da La Freccia di giugno 2021