Fare dell’intervistatore per eccellenza un intervistato d’eccellenza è, più che un gioco di parole, un divertente esperimento per dimostrare quanto la tv, almeno per la mia generazione, sia ancora uno strumento di comunicazione di straordinaria efficacia. Perché (me)dialogare con Bruno Vespa – il mio incipit roboante vuole dissimulare l’inaugurale soggezione ma tradisce lo spirito di questa rubrica – sembra come parlare con uno di famiglia, tale e tanta è la consuetudine domestica con quel volto e quell’inconfondibile timbro di voce. Tratti diventati familiari, perché ci accompagnano da oltre 50 anni dallo schermo televisivo sintonizzato sulla rete ammiraglia della Rai.

 

Mi viene da definirti un colosso, un monumento del giornalismo, poi penso all’amico Emilio Giannelli, anch’egli ospite di questa rubrica, che rifiuta l’appellativo ricordando - autoironico e realista - che sui monumenti ci cagano i piccioni.

No, no, né colosso né monumento…

 

Però il tuo percorso professionale ha pochi termini di confronto.

Sì, dai, direi che è andata bene.

 

E il tuo punto di vista su come se la passa oggi il mondo dell’informazione ha un peso specifico non da poco.

Senz’altro è un momento di grande crisi e di grande trasformazione. Sai, io ho cominciato a fare questo lavoro quando non esisteva nemmeno il fax ma soltanto le telescriventi e, soprattutto, per noi di provincia esistevano gli stenografi, loro sì veri monumenti, di una bravura imbarazzante. Quindi di rivoluzioni ne ho vissute tante, e quella di Internet è stata, in positivo e in negativo, una grande rivoluzione. In positivo non devo spiegartelo, sto pensando soltanto ai miei libri, per esempio. Ecco, se devo verificare una data non devo perdere tempo, come succedeva 20 anni fa, a sfogliarmi un’enciclopedia, mi basta un nanosecondo. In negativo perché purtroppo c’è uno scarsissimo controllo delle fonti anche da parte dei nostri colleghi. E siccome online esce di tutto, questo è assolutamente devastante. Molto pericoloso, come i social che sono diventati uno strumento di distruzione di massa.

 

D’istruzione e distruzione, suona uguale ma c’è tanta differenza. E quindi, come ci si difende?

Non fidandosi di nessuno, tantomeno delle informazioni assunte sul web che, ripeto, è uno strumento prezioso ma anche straordinariamente pericoloso.

 

Si torna a una delle regole principi del giornalismo, il controllo delle fonti.

Sì, ai miei colleghi di redazione, da 25 anni, dico sempre che siccome noi non possiamo sbagliare perché se agli altri perdonano tutto a noi non perdonano niente, il controllo delle fonti deve essere assolutamente rigoroso. E questo vale per tutti, evidentemente. Ogni volta ripeto: «Non mi dite mai: “L’ho letto sul giornale, perché il giornale può essere una prima fonte, ma non è la fonte». Un giornale ti può avvertire che è successa una cosa ma poi devi verificare se davvero è andata così.

 

È anche vero, come sostiene Pierluigi Battista intitolando così un suo corso di scrittura giornalistica, che “i fatti sono opinioni”. E vale anche la chiosa “le opinioni non sono fatti”.

Sono assolutamente d’accordo con Pigi, parole sante. Basta vedere come si titolano le condanne e le assoluzioni: in maniera totalmente diversa a seconda di come la pensi. E, comunque, per una condanna sei colonne in prima pagina, per l’assoluzione due in 24esima.

 

E qui c’entra la ricerca di sensazionalismo, per fare della notizia un prodotto da vendere, oppure la partigianeria, che quando è dichiarata è discutibile ma lecita, ma anche l’impossibilità a essere totalmente oggettivi.

Sì, certo, ma occorre comunque onestà. Io mi ricordo sempre, e sto parlando di più di 30 anni fa, che prima di Mani Pulite arrestarono un assessore regionale, mi pare della Liguria, e noi demmo la notizia nel sommario del telegiornale, proprio nei titoli principali. Quando fu prosciolto io pretesi che fosse messo nei titoli del telegiornale. Cosa che non succede mai, mai. Perché sono tali e tanti i danni che noi riusciamo a procurare alla vita delle persone che insomma queste riparazioni sono...

 

Più che doverose.

Assolutamente, una regola di vita dalla quale non si può derogare in maniera assoluta. 

 

Parlando prima dei colleghi di redazione che da 25 anni ammonisci sul controllo delle fonti ti riferivi a quelli di Porta a Porta. Un quarto di secolo di approfondimenti e confronti politici.

Venticinque anni a gennaio, quelli solari, ma questa è già la 26esima stagione. Porta a Porta è nata il 22 gennaio del 1996, Romano Prodi fu il primo ospite.

 

E gli portasti fortuna.

Tutta la prima puntata fu molto fortunata. Quando Prodi venne da noi stava per essere fatto fuori da candidato premier dell’Ulivo. Questo succedeva il lunedì e il mercoledì ci fu il confronto tra Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi che poi avrebbero mandato per aria l’ipotesi di un governo Maccanico. E questo salvò Prodi. Da subito, in qualche modo, Porta a Porta fu testimone di un episodio decisivo.

 

Quasi un elemento della vita politica italiana, tant’è che Giulio Andreotti la definiva la “terza Camera”.

Testimone, testimone. Però è vero, Andreotti diceva: «Se io parlo in Senato non mi si fila nessuno, se vengo a Porta a Porta poi mi telefonano tutti».

 

 

La politica è stata senz’altro uno dei temi centrali della trasmissione, con gli inevitabili corollari di polemiche, penso anche alla famosa firma di Berlusconi del contratto con gli italiani. Però anche la cronaca, tante vicende che hanno appassionato gli spettatori e tu hai approfondito, sviscerato, chiamando a raccolta tecnici, esperti, opinionisti. Ecco, qual è il confine tra informazione e intrattenimento e come quest’ultimo è funzionale a conquistare attenzione e ascolto?

Quando nacque Porta a Porta, il direttore di Rai1 era il bravissimo Brando Giordani, che in qualche modo questa trasmissione la subì, non ci credeva. Non credeva che si potesse fare politica educatamente su Rai1, perché quelli erano i tempi di Samarcanda, del sangue, dell’arena, la politica era proprio battaglia, robe terribili. Invece ci riuscimmo e, a proposito di intrattenimento e politica, contaminammo proprio la politica con le persone dello spettacolo.

 

Scusami, che significa la subì?

Le cose andarono così: io ero stato direttore del telegiornale fino al  ‘93 e mi dimisi senza condizioni, fui un imbecille assoluto. Avrei dovuto fare la prima serata di informazione e non me la fecero fare. Ero a Palermo per seguire la prima udienza del processo Andreotti e rientrando in albergo, per caso, sentii uno spot: seconda serata a Carmen Lasorella, cinque serate su cinque. Allora, tornato a Roma, andai a viale Mazzini da Letizia Moratti che, pur essendo presidente, era la donna forte dell’azienda e le dissi: «Ma lei vuole che io me ne vada?». E allora dettero tre serate a Lasorella e due a me.

 

Da lì tutto un susseguirsi di successi di share fino a che Porta a Porta non diventa la regina della seconda serata televisiva. Quale il segreto?

Se guardiamo le analisi degli ascolti, emerge che siamo leader nella fascia più colta e in quella più elementare, questo da sempre. E fin dall’inizio. Lo dissi a Gianni Agnelli che mi chiedeva come andava la trasmissione e anche a Carlo De Benedetti. Noi parliamo molto molto semplicemente e cerchiamo di far capire. Questo non significa naturalmente parlare in maniera banale, però nessuno può dire: «Ma quelli parlano in maniera complicata». Oppure: «Litigano e non si capisce niente». Poi ciascuno può non essere d’accordo con le posizioni espresse dalla trasmissione, ma quello che cerchiamo di fare è mantenere il confronto e la discussione ordinati, certe volte fin troppo, in modo che tutti quanti capiscano. Ecco, questa è la nostra caratteristica da sempre.

 

Una caratteristica vincente, a quanto pare. Più di un direttore di giornale mi ha detto che il suo quotidiano dà spazio a opinioni contrapposte così che sia poi il lettore a “farsi un’idea propria”. Ma in tv oltre al contenuto delle opinioni conta anche come uno le propone e interagisce con l’altro.

È così. E la televisione offre, insieme a numerose opportunità di approfondimento, la possibilità proprio di mettere a confronto opinioni e personalità diverse, per questo credo che la tv, anche quella generalista, abbia ancora lunga vita. Perché per un certo tipo di informazione ancora serve. Non per le notizie in sé, che la gente già sa, sempre e subito. Una delle cause, questa, della crisi dei giornali. Ma per approfondire e capire.

 

Tu hai fatto radio, tv, sei stato direttore editoriale di QN Quotidiano Nazionale, scrivi libri. Media diversi, tecnicalità diverse…

Sì, ci sono delle differenze tecniche ma l’informazione è la stessa, le regole sono le stesse. Poi sai che parli a pubblici diversi, e ti adatti. Io però uso sempre lo stesso linguaggio dovunque, dai libri ai giornali, dalla radio alla televisione, e cerco di farmi capire.

 

Farsi capire, il contrario del latinorum tanto elitario quanto vacuo dell’azzeccagarbugli manzoniano, un demone che alligna in molti di noi. La tua si è dimostrata una scelta popolare e di successo.

Ebbene sì, questa cosa ci ha portato bene e funziona anche nei libri. Io racconto la storia in maniera molto colloquiale, perché la storia è fatta di persone, di amori, di sentimenti insomma. La vita di Benito Mussolini è affascinante perché appunto c’è una personalità molto forte con tutte le sue sfaccettature, paradossalmente anche le sue insicurezze, le sue diffidenze, i suoi casini sentimentali. Sono persone e come persone vanno raccontate.

 

Ecco, parliamo di Mussolini, che è di nuovo il protagonista del tuo ultimo libro, uscito a fine ottobre. Un tema di gran voga, penso anche al successo editoriale di Antonio Scurati con M. Il figlio del secolo

Beh, io ero partito ben prima, la mia Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi ha venduto 300mila copie, molti anni fa. L’anno scorso ho dato alle stampe Perché l’Italia diventò fascista (e perché il fascismo non può tornare), quest’anno Perché l'Italia amò Mussolini (e come ha resistito alla dittatura del Covid) e, se Dio vuole, l’anno prossimo Come Mussolini distrusse l’Italia.

 

Perché tanto interesse verso il Duce? Forse perché dietro la storia di Mussolini c’è la storia di questo Paese, di come gli italiani siano in perenne ricerca di un condottiero, di un padre che li guidi, ma anche di quanto siano volubili e pronti a ripudiarlo?

Sì, è proprio così. Lui diceva, e aveva perfettamente ragione: «La folla è una puttana, va sempre con chi vince». E questo è vero, ed è una caratteristica anche degli italiani.

 

Vorrei tornare a Porta a Porta e a quel dosato mix di informazione e intrattenimento. Che è poi una ricetta adottata anche da altri, con alterne fortune. Hai detto: «Contaminammo la politica con persone dello spettacolo». Un tuo ricordo?

Penso alla nostra prima puntata, quando oltre a Prodi ospitammo Milly Carlucci, poi alla puntata con Valeria Marini che era al massimo della bellezza e del successo. Allora andavamo in onda un’ora prima, la seconda serata era ancora in un orario decente. E poi le sorprese. Quando entravano gli ospiti ce n’era sempre una: il benzinaio amico di Gianfranco Fini o il ciclista amico di Prodi. Era talmente percepito come un piccolo evento che una sera dovetti lasciare in anticipo una cena alla quale era presente Agnelli, dicendo: «Scusate ho la trasmissione». E l’Avvocato mi chiese: «Qual è la sorpresa stasera?».

 

Nel raccontare l’episodio e ricordare la domanda di Agnelli, Vespa imita la sua voce e la sua celebre erre moscia. Ecco, il segreto del successo sta anche in questo, in un’empatia e bonarietà mai scontate. E neppure tanto frequenti, tra i giornalisti.

 

Intervista tratta da La Freccia di novembre 2020