Un viaggio per scoprire il segreto del successo di uno dei grandi protagonisti della scena italiana: Gigi Proietti. Edoardo Leo tre anni fa aveva iniziato a girare un documentario sullo spettacolo, A me gli occhi please, quando Proietti era ancora vivo.

 

Dopo la sua scomparsa quel progetto si è ampliato diventando Luigi Proietti, detto Gigi, e ora sbarca al cinema dove rimarrà dal 3 al 9 marzo: un documentario che è l’esplorazione di un talento innato e allo stesso tempo coltivato, versatile e multiforme, capace di attraversare stili e generi diversi, sapiente nell’elevarsi e magistrale nel sapersi donare a tutti. Il talento di un uomo nato il 2 novembre, giorno dei morti, destinato a coinvolgere generazioni di spettatori con la sua carica vitale.

 

Leo, che ha presentato il docufilm lo scorso ottobre alla Festa del cinema di Roma, ripercorre tutta la carriera del Mandrake della ribalta. Dal teatro sperimentale al successo popolare di Rugantino, dalla direzione con alti e bassi del Brancaccio fino alla creazione del Globe Theatre.

«L’idea di partenza era approfondire A me gli occhi please, lo spettacolo del 1976 che ha stravolto la scena teatrale italiana. Il primo vero one man show. Poi Gigi se n'è andato e io mi sono ritrovato con ore e ore di materiale video», commenta Leo che decide di andare avanti e provare a raccontare tutta la vita di Proietti. «Un’impresa complessa, che mi ha preso anni di lavoro».

Attraverso interviste a familiari ed amici, estratti di spettacoli e dietro le quinte, Leo costruisce un ritratto che vuole allontanarsi dall'idea di comico e mattatore entrato nell’immaginario collettivo: «La sua comicità unica era frutto di studio e ricerca. Alcune sue buffe lunghe tirate verbali derivavano da uno scrupoloso lavoro sulla voce e sul diaframma. Faceva ridere attraverso le parodie dei classici. Per riuscirci li aveva studiati molto a fondo», spiega Leo.

Intervista a Carlotta Proietti (a cura di Aldo Massimi)

Riproponendo le tappe artistiche del Maestro, Leo ha notato come un’estrema umiltà e onestà intellettuale gli impedissero di comprendere quanto fosse grande: «Quando gli ho parlato del documentario su di lui mi ha chiesto il perché. Non se lo spiegava. Eppure un uomo modesto e allergico ai superlativi, nel momento in cui entrava in scena era capace di mangiarsi il palco. Quando nel 2000 portò allo stadio Olimpico A me gli occhi please c’erano 25mila persone a guardarlo».

L’insegnamento che lascia è il profondo rispetto per il pubblico: «Il suo lavoro ruotava tutto in funzione degli spettatori, che Gigi cercava di interessare in maniera trasversale. Lo andavano a vedere i ragazzi delle periferie come gli intellettuali e i grandi artisti. È riuscito a fare del suo teatro un’esperienza di democrazia».