In cover, Troppa notte intorno a me, edito da Sperling & Kupfer, pp. 288, € 25

L’idea del suo ultimo libro, Troppa notte intorno a me, a Carlos Solito è nata in una sera d’inverno sui monti Picentini. Una notte di luna grande, una sigaretta, un silenzio infinito e la birra messa a ghiacciare sulla ringhiera. In un istante immobile, con la pandemia a fare del mondo un unico grande tunnel, Carlos sulla luna s’è incantato e s’è messo a pensare. Quel satellite fuori misura gli pareva avesse la forma di un’emersione, dell’uscita di una caverna, della possibilità di un ritorno a galla: “E se fosse quella la via d’uscita per tutti?”.

Carlos Solito

Un anno e qualche mese dopo, Sperling & Kupfer ha dato alle stampe quello che, a oggi, è il suo libro più intimo e che, dietro la vicenda di un uomo fermato a un passo appena dal suicidio, Dante, e del suo vate improvviso delle montagne, Virgilio, nasconde in effetti l’antologia profonda dei pensieri di una vita. Un libro che a cercarne la trama non se ne trova. Ché, alla fine, le anatomie delle emozioni non hanno bisogno di vicende complesse o di pretesti narrativi per essere tracciate. E Carlos, questo ci racconta tutta la sua carriera intrecciata di scrittore, fotografo e regista, non c’è emozione a cui non sappia dare il giusto tono di voce, a cui non sappia trovare le parole per dirle senza un solo grammo di esagerazione, di retorica, di fastidio.

Le parole. Sarà che come per il Moretti di Palombella Rossa, anche per lui le parole sono importanti e richiedono tempo, il giusto tempo, senza ossessioni di orologio, per emergere. Per questo, con Carlos vale la pena far saltare i crismi e gli assiomi delle interviste canoniche, tanto con lui servirebbe a poco imporseli. La chiave sono quindi le parole. Poche, appena cinque. E su queste, abbiamo ragionato.

Ascolta l'intervista a Carlos Solito, a cura di Aldo Massimi

Illustrazione I fiumi di caronte (Cap. 11) di Francalaura Rella e Maria Stefani

Buio. È ambientazione, è pretesto, è metafora, è protagonista. Lo è, indirettamente fin dalla copertina del libro, fino dal titolo. Il buio è il tuo grande interlocutore. Strano, in un mondo che ha bisogno di illuminare tutte le zone d’ombra per paura di scoprirsi vulnerabile.
Vero. C’è quasi del medievale in questa paura per il buio. Il fatto è che il buio dà un colore e una misura a tutto quello che non conosciamo: è la forma che hanno i nostri limiti di conoscenza. Il buio intimorisce per questo ma anche perché non dà punti di riferimento. E nell’assenza di punti di riferimento ognuno è costretto a fare i conti con se stesso. Prendi una caverna, mettici dentro un uomo, spegni tutte le possibili luci artificiali che può essersi portato. Ecco, che cosa gli resta per trovare l’uscita se non se stesso, le sue mani, le sue orecchie, i suoi pensieri, il suo olfatto, il suo istinto? Da speleologo conosco bene questa sensazione di infinito pitturato di nero. Eppure, proprio in questo, non vedo il principio di una paura, ma l’occasione di una possibilità: nell’intimo confronto con me stesso, tutto diventa un banco di prova superato il quale avrò trovato una risposta in più. Il buio è perciò a tutti gli effetti un tragitto da percorrere per trovare l’uscita. Dante e Virgilio, i protagonisti di Troppa notte intorno a me, sono due abitanti del buio, due conoscitori del silenzio. Ognuno si porta addosso, nell’umido delle caverne degli Alburni, o nel freddo intenso delle notti di neve sui Picentini, la propria dose di buio. E ognuno ha una crepa di luce che spera lo porti fuori, a respirare ancora.

Carlos Solito in grotta

Viaggio. Il buio è un viaggio. Ma viaggio è anche tutta la tua vita: una vita in cammino, inquieta, il mondo per casa, le strade per corridoi, la lingua per stella polare. Viaggio sopra la terra, viaggiare sotto terra: da anni i tuoi libri sembrano una preghiera alle anime in cammino.
È così. Ma che storia staremmo raccontando se l’uomo non avesse migrato? Le civiltà, le scoperte, tutte le più alte trovate e invenzioni nascono dal viaggio, fin dal momento primevo in cui il primo tra gli australopitechi ha abbandonato la terra ed è salito su un albero per sfuggire all’assalto di predatore scoprendo così che esisteva un altro orizzonte. Il viaggio è la bussola delle nostre esistenze. Percorrere la vita significa raggiungere quella combinazione di latitudini e longitudini dove sono avvengono e dove avverranno le cose per noi più rilevanti: la nascita di un figlio, un’occasione persa, un amore grande, il concerto epocale. Vicende e incontri sono possibili solo mettendosi in cammino. Viaggiare è dunque sentirsi vivi, viaggiare è essere vivi.

Photo © Carlos Solito

Fotografia. Quasi in contemporanea con Troppa notte intorno a me è uscito, per i tipi di Rizzoli, La luce che non ti ho raccontato, un libro fotografico. Sembra un ossimoro: il buio di qua, la luce di là; le caverne e l’introspezione di qua, l’espressione visiva di là. Ma la fotografia, come mezzo espressivo, ti appartiene, ti rappresenta al pari della scrittura?
Mi piace pensare che la mia fotografia sia una fotografia da leggere, nella stessa misura in cui la mia scrittura possa essere una scrittura visiva, da vedere. Sono un ibrido, un curioso. Per questo mi trovo a disagio quando, dette di me, leggo parole come scrittore o fotografo. Sono parole che imbrigliano dentro degli schemi, quando invece mi sento un narratore. Mi dirai: ma che cambia? E invece cambia, eccome. Lo scrittore è un professionista della parola. Il fotografo è un tecnico dell’immagine. Io invece voglio fare di me un artigiano, un bottegaio di queste forme espressive, per raccontare e documentare anche quello che non è direttamente visibile. Io, per esempio, sono cresciuto guardando i venti, seduto sui bordi delle gravine di Grottaglie, bambino a sei, sette, otto anni a fecondare le visioni con i piedi nel vuoto e mia nonna qualche passo più in là, inerpicata per pendii ostici, a raccogliere capperi o cicoria. Si possono osservare i venti? Sono percettibili le correnti d’aria? Per me si: perché potevo riconoscere la tramontana quando, arrivando da Nord, puliva l’aria e mi permetteva di spaziare dal golfo di Taranto e le ciminiere dell’Ilva fino all’Appennino lucano e quello calabrese. E potevo anche dare un’immagine al maestrale quando, impetuoso e senza ostacoli, faceva flettere le chiome degli ulivi sul fondo delle gravine.

Photo © Carlos Solito

Interno. Parlare del Meridione lontano dal Meridione significa prestare il fianco alla fastidiosa visione di una terra tutta costiera. Non solo isola, piuttosto un’unica, gigantesca isola moltiplicata, dove non c’è città, non c’è paese che non s’affacci al mare. Si scrive “poca conoscenza” si legge “cartolinismo”, un’associazione blanda e consolatoria che ignora tutta quella parte che invece più rude, discreta, radicale, che tu hai raccontato anche in Troppa notte intorno a me e, ancor prima, in Sogno a Sud.
I miei nonni erano contadini. La mia tradizione familiare, parte del mio corpo, il colore ruvido della mia pelle, la durezza della mia barba, è come se raccontassero questa eredità, un po’ anche brigantesca. Per i miei nonni, come per molta parte della loro generazione, nascere in “quell’altra parte di Meridione” significava non vedere mai il mare. Era vicino, forse, ma era insieme lontano e irraggiungibile, come poteva esserlo qualunque città straniera. Mi piace rivendicare questa cittadinanza ruvida come un foglio di carta vetrata, meno filosofica, poco poetica, molto faticosa, fisicamente provante. Mi piace parlarne, provare a portarla per iscritto per ribaltare la concezione. Non solo per una questione di affetto: ma perché la trovo più autentica, meno costruita, meno obbligata a doversi raccontare a tutti i costi. Ma in verità non trovo questo passaporto incompatibile con la carta d’identità marinara. Io sento di possedere entrambi i documenti. Sono abitante di un Mediterraneo rupestre che è solo scostato di un po’ dall’acqua ma stratificato in passate ere geologiche dal mare e, poi, scavato e cesellato dall’acqua. Il mio paese, per esempio, Grottaglie, che è il paese dei miei nonni, non è bagnato da alcun mare. Eppure lo vedi quando c’è vento, lo senti quanto c’è burrasca. È lì, lo sguardo lo tocca, l’orecchio si spaventa dei suoi ruggiti, la fantasia ci può navigare. Grottaglie, come Martina Franca, come i borghi della prima Murgia, come Ischitella o Vico o Carpino sul Gargano interno hanno le strade assalite dallo iodio e risentono degli stessi sintomi di alofilia delle città di mare, con la salsedine che rende l’aria saporita, scrosta le case e rischia di arrugginire le carrozzerie delle macchine più vecchie. Ed è qui, proprio qui, in questo Mediterraneo intimo, che si respira la contraddizione dell’essere umano. È il Sud imperfetto, brullo nella morfologia, polveroso, abitato da canaglie, puntinato di luoghi feroci e di peccato. Il peccato: questa è la parte più affascinante di ogni raccontare. Sono i paesi e i sentieri fuori dai navigatori satellitari, sfuggiti alla rotte, quelli che quando cammini rischi ogni volta di finire all’ingresso di una caverna in cui entra, dall’alto, una spada di luce e va a picchiare su un Cristo pantocratore bizantino vecchio più di mille anni.

Photo © Carlos Solito

Cibo. Ultima parola, ultima riflessione. Non c’è libro di Carlos Solito che non abbia un bar di paese, un’osteria, un camino per cucinare, un’abbondanza di vino, carne messa a cuocere, verdure da raccogliere e mettere sotto le braci.
Il cibo è la malta. Penso al cibo e ricordo mio nonno sul cantiere che, in attesa che la sua malta si addensasse, tirava fuori un panino per sé e uno per me e mangiava facendomi mangiare. A distanza di anni mi sono sorpreso a riflettere che, in quegli attimi, andava in scena, sotto i miei occhi, un doppio processo generativo: la malta nello “zappone” che sarebbe servita agli operai, la malta nello stomaco che sarebbe servita a “vivere, amare, soffrire” direbbe Guccini. Il cibo è sudore, conquista, lavoro. Il cibo è un atto finale, il punto di arrivo dopo il mal di schiena, la polvere della terra, i calli sulle mani e le scaglie di legno della zappa nelle dita. La contemporaneità del tutto qui, tutto subito e tutto ora ha rimosso questa dimensione, che è contadina, viene da lontano e dava un valore reale al cibo, non necessariamente economicista. Ora l’era dell’ingordigia e dell’obesità, del cibo mordi e fuggi sempre meno mordi e sempre più fuggi. Il cibo è fiducia. La tavola un luogo d’incontro. Il vino una medicina per la parola. Mangiare con qualcuno è riconoscere qualcuno. Spartire il pane nello stesso momento con una persona significa condividerne lotte, angosce, sofferenze e gioie. A tavola spesso ci si incontra per portare quello che altrimenti non si direbbe mai. Il cibo è verità. Il cibo è un collante. Nei sapori, negli odori, nelle mani unte d’olio o di grasso, c’è la memoria, ci sono le famiglie, c’è la comunità. Ci sono anche le religioni. Ecco, il cibo è sacralità e si nutre di rituali che sono sacri. È evidente nel mondo arabo. Molti di quei riti, ingredienti ma anche modalità di preparazione, sono arrivati fino da noi attraverso il mare, percorso i secoli e oggi sono sempre là. Perché il cibo, sì, è anche quello che siamo.