In apertura, Le baiser de l’Hôtel de Ville/Bacio davanti all'hotel De Ville, Parigi (1950) © Robert Doisneau
«Mi piacciono le persone per le loro debolezze e difetti. Mi trovo bene con la gente comune. Parliamo». Robert Doisneau adorava passeggiare per le vie di Parigi, anche in quelle di periferia dove i bambini giocano a pallone, tra polvere e libertà. E dove il celebre fotografo francese nacque all’inizio del secolo scorso, nel sobborgo parigino di Gentilly. Quando le strade cittadine brulicavano di uomini e donne di ogni ceto sociale ed età che si alzavano presto per andare a lavorare e avevano le facce dei portieri degli hotel, abituati a vivere al buio di certi bistrot.
L’information scolaire/L'nformazione scolastica, Parigi (1956) © Robert Doisneau
Robert indagava le persone, senza anteporre tra sé e loro la lente d’ingrandimento dell’osservatore freddo e scientifico, ma trasportato da uno sguardo partecipe, fraterno, carico di poesia e coinvolgimento. La fotografia di Doisneau è uno strumento senza filtri per «far luce su quelle persone che non sono mai state sotto i riflettori».
A Roma, una mostra a lui intitolata, allestita negli spazi dell’Ara Pacis e curata da Gabriel Bauret, racconta la Parigi degli anni ‘30, della guerra e della Liberazione attraverso i volti catturati, le scene quotidiane e quei fermo immagine divenuti icone senza tempo, come Le baiser de l’Hôtel de Ville (Bacio davanti all’Hotel De Ville), uno dei baci più famosi, riprodotti e citati della storia del ‘900.
Mademoiselle Anita, cabaret La Boule Rouge, rue de Lappe, Parigi (1950) © Robert Doisneau
Fino al 4 settembre, 130 stampe ai Sali d’argento in bianco e nero, provenienti dalla collezione dell’Atelier Robert Doisneau a Montrouge, mostrano uno struggente spaccato della fotografia umanista francese e del fotogiornalismo di strada. Protagonista il popolo di Parigi e la sua banlieue abitata da comparse anonime e attori senza nome.
Il percorso è diviso in 11 sezioni, tra cui Portraits (1942-1961), fase poco nota del lavoro di Doisneau costituita da numerosi ritratti di attori, scrittori, pittori come Pablo Picasso e Alberto Giacometti, Enfances (1934-1956), animata di bambini, e Bistrots (1948-1957), universo soffuso e intimo dove nasce l’inquadratura autentica e malinconica di Mademoiselle Anita. «Il fotografo deve essere come carta assorbente, deve lasciarsi penetrare dal momento poetico», ricordava Doisneau, tanto da trasformare una foto in un testamento di antropologia collettiva che sembra una terzina in rima.
Articolo tratto da La Freccia
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