Tra le dune del deserto e un mare ignoto da attraversare, tra il sogno di un mondo nuovo e le coste di un continente atteso all’orizzonte, tra la sete, la speranza e il dolore fisico che si impasta con quello interiore: Pinocchio diventa Ulisse.

 

Con sguardo epico il regista Matteo Garrone ricostruisce in Io capitano una moderna Odissea, il viaggio del protagonista Seydou Sarr dal Senegal fino al Mar Mediterraneo, passando per la costa occidentale dell’Africa, il deserto del Sahara e la Libia.

 

La pellicola è diretta in lingua wolof per lasciare che sia la realtà a raccontare la storia senza filtri e mediazioni e invitando lo spettatore a porsi nella dimensione dell’ascolto di un punto di vista, anche linguistico, che non è il suo e che per questo richiede di essere accolto, capito e conosciuto. Parlano le immagini e i colori che all’inizio sono accesi e brillanti, riflesso della comunità di Seydou ricca di energia vitale, per poi, nel corso del viaggio, sbiadirsi e tingersi di terra, fango e sangue.

 

Seydou è un sedicenne di Dakar che insieme al cugino coetaneo Moussa decide di lasciare la propria casa per raggiungere l’Europa, dopo aver lavorato di nascosto per mettere pochi soldi da parte per affrontare il viaggio. Seydou e Moussa fantasticano di diventare famosi cantanti rap; non partano a causa della guerra, dell’eccessiva povertà e miseria. Partono perché credono di avere diritto a realizzare i propri sogni, a pretendere di più dalla vita, a conoscere il mondo lontano dalle radici familiari. Partono per concretizzare il destino di ogni adolescente che inevitabilmente, anche se con dolore, recide prima o poi il cordone ombelicale per avanzare con caparbietà e speranza verso un futuro tutto da scoprire.

 

Ma l’avventura per raggiungere l’Italia si rivela presto drammatica e violenta. Prima una lunga attraversata nel deserto, la separazione dal cugino Moussa, poi i centri di detenzione libici e la corruzione dei trafficanti umani.

 

Nella brutalità della realtà raccontata senza retorica o pietismo, Garrone cede il passo a delle incursioni oniriche, proiezione dell'universo interiore del protagonista. E così Seydou, non riuscendo a salvare una donna sfinita nella sabbia del Sahara, immagina di accompagnarla in volo, avvolta nei suoi abiti africani brillanti. È lì che il giovane scopre la forza della pietà, una forza che eleva oltre la disperazione, il caldo e il dolore.

 

Ricongiuntosi in Libia con il suo compagno di viaggio Moussa, Seydou accetta la proposta di un trafficante di guidare un peschereccio carico di persone dall’Africa all’Italia. Inizia così un viaggio nel viaggio, nel mare gonfio di tempesta e senza rotta. Poi il rumore di un elicottero della guardia costiera italiana, gli occhi che si gonfiano di lacrime, il profilo di una terra a poche miglia dall’imbarcazione e l’urlo di disperazione e gioia: “Io, capitano”. E in quel grido c’è tutto il coraggio, la tenacia e l’umanità di un ragazzo che diventa uomo nel momento in cui dice “io”.