In apertura, il regista Damiano Michieletto al Teatro dell’Opera di Roma © Yasuko Kageyama

Ha impegni fissati per i prossimi tre anni, con scritture per la regia operistica, nei principali teatri di tutto il mondo. Un’agenda senza tregua, che a ottobre lo vede impegnato anche in Italia, al Teatro del maggio musicale fiorentino e poi al Carlo Felice di Genova. Cresciuto a Scorzè, in provincia di Venezia, dove ha fatto anche il pizzaiolo per avere un po’ di indipendenza economica, il regista Damiano Michieletto gira il mondo mettendo in scena grandi opere. Ma per vivere ha scelto Treviso: «Qui ho i miei affetti, la mia dimensione, i miei trascorsi personali, è un po’ il mio rifugio», racconta.

Un ottobre impegnativo, per te. A Genova, dal 28 al 6 novembre, porti per la prima volta in scena Béatrice et Bénédict di Hector Berlioz.

La mia professione è internazionale, vado spesso all’estero perché l’opera lirica ha un linguaggio che va oltre i confini. Cerco di bilanciare i progetti che faccio fuori con quelli che metto in scena in Italia, ma è bello poter incontrare pubblici diversi fra loro. Sono molto contento di tornare nel capoluogo ligure, dove ho iniziato con una delle mie primissime regie, con un’opera del tutto nuova. Prima ancora sono impegnato con un capolavoro barocco, Alcina di Georg Friedrich Händel, che ho già portato a Salisburgo, con la quale dal 18 al 26 ottobre sono a Firenze. La protagonista è Cecilia Bartoli. Sono due lavori molto diversi, per me è una soddisfazione portarli in Italia dove non sono mai stati eseguiti.

La regia operistica è diversa da altre forme di direzione, consente di mettere insieme diverse espressioni dell’arte. È così?

Un po’ sì. Diversi registi cinematografici amano l’opera e vi si cimentano, da Luca Guadagnino, Leone d’argento a Venezia, a Ferzan Özpetek. È un genere che unisce la storia e una bellissima musica a una grande orchestra con grandi voci. Una torta con molti ingredienti. Può sembrare una nicchia perché in parte rimane legata al passato, o almeno così a volte la intende il pubblico, oggi abituato a forme di comunicazione più accattivanti. Rimane però un evento forte, perché tutto è eseguito dal vivo, immediato, unplugged direbbero gli anglosassoni. Tutto vero, senza effetti, microfoni, filtri. Le voci sono quelle dei cantanti sul palcoscenico con i costumi, le coreografie, il coro, le luci: un’enorme ricchezza. Per questo mi piace molto, è diretta, onesta e quando è fatta in maniera potente riesce veramente a coinvolgere il pubblico.

Michieletto durante le prove de La damnation de Faust al Teatro dell'Opera di Roma

Michieletto durante le prove de La damnation de Faust al Teatro dell'Opera di Roma © Yasuko Kageyama

Quando prepari la regia di un’opera, che di fatto già esiste, come fai a renderla “tua”, a infondere una linea creativa originale?

Il primo obiettivo che mi pongo è proprio quello di riuscire a trovare un linguaggio teatrale efficace e coinvolgente per la storia. È sempre una sfida perché il teatro ti chiede una nuova produzione, con l’aspettativa di una lettura inedita che possa sorprendere e far riflettere, rimanendo capace di conservare la natura dell’opera che è, in ogni caso, un grande classico. Ecco, per muovere la mia fantasia, parto proprio da qui.

Esiste uno “stile Michieletto”?

Non lo so, ma spesso il pubblico lo riconosce. Forse è il mio tentativo di partire sempre dall’umanità dei personaggi e dalle loro relazioni, mi piace analizzare le costellazioni familiari, facendole esplodere con la fantasia, uscendo da certi canoni tradizionali che poco mi appartengono.

Hai frequentato la Scuola di teatro Paolo Grassi, volevi fare l’attore?

No. Mai pensato.

Quando hai capito che la tua strada sarebbe stata principalmente la regia operistica?

Non ho mai frequentato i teatri dell’opera, né pensavo che mi sarei occupato di questo in maniera così intensa. La scintilla è scattata proprio durante la Paolo Grassi. Il direttore Mario Raimondo cercava un giovane regista per un piccolo lavoro con l’Orchestra Verdi dell’Auditorium di Milano, dove mettevano in scena Histoire du Soldat di Igor Stravinskij e scelse me. Seguii quel progetto con grande entusiasmo e passione, una cosa semplice, ovviamente senza un soldo. Era la prima volta che lavoravo con i cantanti, un’orchestra e un direttore. La musica di Stravinskij era meravigliosa e mi affascinò. Cominciai così, anche se l’opera poteva sembrare qualcosa di antico per un pubblico borghese poco sensibile alla novità. Ma, in realtà, cela una grande carica di vitalità che merita ogni volta di essere scoperta e proposta.

Lo spettacolo Giulio Cesare in Egitto al Theatre des Champs Elysees

Lo spettacolo Giulio Cesare in Egitto al Theatre des Champs Elysees © Vincent Pontet

Nel metterla in scena conta di più la musica, le voci o la scenografia?

L’ideale sarebbe una costruzione artistica dove non capisci quando inizia una cosa e finisce l’altra. Ma, dovendo scegliere, la differenza la fanno sempre gli interpreti: l’opera lirica nasce per loro. Per questa ragione, lavoro sempre a stretto contatto con i cantanti, per spingerli, provocarli. Mi piace dire che non faccio le prove di uno spettacolo ma cerco di “metterli alla prova”, per portare sul palcoscenico il massimo delle loro capacità fisiche e vocali.

Dove sei cresciuto?

A Scorzè, un piccolo paese in provincia di Venezia. Ero un bambino irrequieto e molto curioso, giocavo nei campi con gli amici, in famiglia non c’era nessuna velleità o influenza artistica.

Il profumo della tua infanzia?

Quello dell’erba e del grano nei campi, sono nato in campagna e stavo sempre all’aperto.

Giri il mondo, ma vivi in una piccola bellissima città di provincia.

Sì, a Treviso, a venti minuti da Scorzè, dove ho i miei riferimenti affettivi. Lavorando spesso fuori, in grandi città e capitali, desidero tornare a una situazione intima e protetta, legata alle mie origini. Mi fa stare bene e mi trasmette un senso di casa.

Porti all’estero l’opera lirica, un grande patrimonio italiano. Come viene accolta?

Il pubblico straniero ha una enorme passione per questo genere, emblema del nostro Paese e della sua creatività. Il termine “opera” è italiano, come lo sono “allegro” o “lento” le parole che indicano i tempi della musica, e le figure del canto, dal tenore al baritono. Un patrimonio che è bello condividere con tutto il mondo, esportando questa bellezza.

Andrea Radic e Damiano Michieletto

Andrea Radic e Damiano Michieletto

Quali emozioni ti suscita prendere il treno?

Mi ricordo bene un viaggio verso Roma fatto a 14 anni: ho ancora chiaro l’odore della Stazione Termini. Ma anche diversi spostamenti verso Milano, quando i treni erano diversi, e i viaggi in cuccetta. Un mondo poetico e suggestivo che mi ha sempre affascinato. E poi questo mezzo consente di usare il tempo in maniera utile: non devi occuparti della strada ma puoi osservarla e tutto diviene più leggero. Ti godi il panorama e a volte fai incontri che possono essere curiosi e interessanti. Poco tempo fa ho diretto un Barbiere di Siviglia dove la storia inizia con i personaggi che salgono su un treno che li porterà a Siviglia.

Prima che si apra il sipario che sentimento provi? Paura, ansia o sicurezza?

Ansia e paura sono emozioni che non ho mai sperimentato, neanche all’inizio. Prima di un debutto sono piuttosto rilassato perché confido nella preparazione svolta durante il mese precedente. Ho voglia di partecipare in mezzo al pubblico e godermi le loro reazioni.

Hai mai pensato di dirigere una macchina da presa?

Alcune volte ho utilizzato tecniche cinematografiche, come nel Rigoletto andato in scena al Circo Massimo di Roma, dove tutto lo spettacolo gira intorno all’uso della macchina da presa. L’anno scorso ho realizzato un film vero e proprio tratto dal Gianni Schicchi di Giacomo Puccini. Una bella avventura sul set, in cui i cantanti intonavano le arie sentendo la musica solo dall’auricolare, una situazione curiosa.

Cosa apprezzi nelle persone e cosa detesti?

Detesto la menzogna e chi se ne approfitta. Ammiro la spontaneità e l’empatia.

Articolo tratto da La Freccia