Ci sono scrittori e scrittrici che conoscono la lingua del mare. Altri che masticano una calata di terra. E poi c’è chi riesce nell’incanto. Sono gli autori e le autrici la cui voce è vento che agita il mare e rinvigorisce la terra. Monica Acito parla un dialetto di fuoco che si spegne nell’acqua salata del golfo di Napoli. Conosce il rumore del cielo quando chiama tempesta e rannuvola l’orizzonte. Raggranella ogni male, lo schianta a terra, tra chi blatera e chi prega, tra porci e benedette, per le strade sporche o nei salotti borghesi. Acito non conosce pietà perché sa che lo schifo del mondo deve vedersi per essere purgato. Poi, soffia il vento del perdono, una brezza capace di rinfrescare il viso soltanto agli stolti. Un segno della croce compiuto da mano distratta. Eppure, soffia, perché chi possiede la parlata del vento non smette di fischiare mai. Ondeggia, scroscia, sbatacchia, frusta, si gonfia, si disperde, mulina, vortica, investe, schiaffeggia, fa lacrimare, rinfresca, asciuga, strozza, poi ulula, s’alza e ricade. Ma procediamo con ordine. Acito è nata nel 1993, ha la parlata schietta di chi tiene un mondo nella pancia che si agita per uscire, venir raccontato e farsi di tutti. È cresciuta in Cilento, tra le gole del fiume Calore e i templi di Paestum, ha studiato a Napoli e poi a Torino, alla Scuola Holden, allieva dello scrittore Andrea Tarabbia. Dal 2020 ha lavo[1]rato per due anni al suo romanzo d’esordio, pubblicato da Bompiani: Uvaspina.

L’uvaspina va spremuta, così vuole il mondo, perché dal suo succo si ricavi una cura per i malanni degli altri. E così la scrittrice spreme il suo uvaspina, femminiello, “criaturo” bellissimo e fragile: lo esponeall’odio e all’amore, lo graffia, lo punge. Accanto a lui fa muovere, incessante, lo “strummolo”, una trottola capace di ferire: è sua sorella Minuccia, agitata dal vento e dal fuoco, forte come la terra, volubile come il mare. Come si può raccontare una storia che ha dentro un mondo? Presentare ogni suo co[1]mandamento, i suoi peccati e le sue torture, tutti i suoi santi, gli amori, i canti, i vizi? In questo romanzo Acito tiene tutto, come si fa dopo l’uccisione del maiale e con gli scarti del pesce. Racconta una storia d’amore e di famiglia, d’odio e di vendetta. Una storia di città, perché attorno a Uvaspina, Minuccia, il padre Pasquale, notaio d’occasione, e la Spaiata, la madre che vuol sempre morire, ribolle Napoli che si incendia e trema.

Come si fa a raccontare la storia di una vita? L’autrice ci riesce, con la calata di terra e di fuoco che pare uscita dalle storie di Domenico Rea e dalle fiabe di Giambattista Basile. Con la parlata del mare, la stessa di Elsa Morante e Anna Maria Ortese. Ci riesce, Acito, perché sua è la lingua del vento.