In cover, Stefano Accorsi sul palcoscenico del Teatro della Pergola di Firenze © Lorenzo Burlando Courtesy Fondazione Teatro della Toscana
Il teatro, quello serio, dall’Orlando Furioso al Decamerone, il cinema, quello impegnato, che lo ha portato a vincere una Coppa Volpi, due David di Donatello e due Nastri d’argento come miglior attore. La televisione, quella che crea opinione narrando un’Italia con pregi, difetti, speranze e disillusioni nelle serie 1992, 1993 e 1994. Poi la direzione artistica della Fondazione Teatro della Toscana e, non ultimo, il libro Album Stefano Accorsi, a cura di Malcom Pagani, una biografia che racconta attraverso le immagini di grandi fotografi la sua carriera, i cui proventi vanno totalmente alla famiglia di Giulio Regeni, il ricercatore sequestrato e ucciso in Egitto nel 2016.
«Giulio siamo noi, tutti noi. Perché non possiamo accettare, insensibili, che una famiglia del Friuli-Venezia Giulia debba pagare ogni volta spese non banali per assistere a un’udienza. Questo è solo un piccolo sostegno per rendere la loro vita, enormemente segnata, un poco meno complicata», spiega Stefano Accorsi.
Stefano Accorsi © Oliviero Toscani
Hai già fatto tutto ciò che il tuo mestiere consente.
Per fortuna di cose da fare ce ne sono ancora tante (dice mentre termina una risata spontanea, ndr): ciò che hai elencato va distribuito su 30 anni di carriera, visto che ho cominciato a 20 anni e non mi sono mai fermato. C’è molta vita da attore, non ho mai smesso di voler raccontare storie e mi fa piacere che l’idea avuta per le serie tv 1992, 1993 e 1994 sia andata in porto, non era così scontato. Mentre è quasi naturale che un attore si impegni nella regia, è meno comune che lo faccia anche nella sceneggiatura, oltretutto in televisione. La fortuna fu che Lorenzo Mieli e Mario Gianani credettero nell’idea, così come fecero Andrea Scrosati e Nils Hartmann di Sky. Da un anno sono direttore artistico del Teatro della Pergola, anche se il lavoro è iniziato molto prima: lo sono diventato a quasi 50 anni, quando è uscito anche il mio libro. Mi riservo una serie di opzioni per il futuro, il che mi lascia ancora un certo margine.
Far girare tutti questi birilli ti diverte o ti affanna?
Lo trovo molto divertente, anche quando esco dalla comfort zone come nel caso della direzione artistica di un teatro importante e prestigioso quale è La Pergola. Una responsabilità che sento molto, nonostante la frustrazione di un periodo complesso, che ci ha costretti a portare a casa solo una parte dei tanti progetti in cantiere. Ecco, questo incarico a volte mi fa tremare le vene dei polsi. Per il resto sono felicissimo di gestire molte attività, incluse la pubblicità e la comunicazione come quella che stiamo facendo per la Regione Emilia-Romagna. Il mio mestiere, e anche la mia passione, è raccontare storie e cerco di farlo con ogni mezzo possibile.
Stefano Accorsi © Enrico De Luigi Courtesy Saverio Ferragina
Sono storie profonde, mai banali.
La scuola di teatro mi è servita molto, senza dubbio, e la suggerisco sempre ai giovani che vogliono intraprendere questo mestiere. La formazione è importante, consente di provare, buttarsi e sbagliare senza farsi troppo male. Tutto ciò, così come il concetto di italianità, mi è stato trasmesso lavorando con drammaturghi contemporanei o sulla nostra grande tradizione, come negli ultimi due spettacoli teatrali: Orlando Furioso e Decamerone. Abbiamo un enorme patrimonio culturale e siamo un popolo fortunato a possederlo, dovremmo ricordarcene più spesso.
Quando hai un momento di pausa ti rifugi per un attimo nella normalità o azzanni la vita ogni minuto?
Quando lavoro l’impegno è totale, passo fino a 16 ore al giorno sul set, in qualche modo sono sempre di fronte a un pubblico. Poter tirare i remi in barca è fondamentale per rigenerarsi. Senza per forza dovermi rifugiare in un eremo, io sto a casa in città, porto i figli a scuola e trovo il tempo per immergermi in una lettura, un approfondimento. Durante le vacanze natalizie, a causa della quarantena per il Covid-19, io, mia moglie e tutti i miei quattro figli, inclusa Athena che vive a Parigi, siamo stati in casa insieme per molto più tempo del previsto. Bello.
Gruppo Editoriale, pp. 160 € 25
Hai figli di età diverse: come percepiscono il tuo mestiere?
Ricordo che Orlando, quand’era piccolo, visto che mi allenavo in casa e non in palestra, mi chiese se di mestiere facevo lo sportivo. Poi mio padre lo accompagnò a trovarmi sul set. Stavamo girando un piano sequenza nel quale io camminavo e parlavo con un altro attore. Così Orlando disse al nonno: «Vado a parlare con papà». Quando lui gli risposte di aspettare perché stavo lavorando, precisò: «No, tranquillo, sta solo camminando». Poi gli ho raccontato qualcosa in più del mio lavoro, è venuto a vedermi a teatro e si è seduto in platea. Stavo recitando nell’Orlando Furioso e ogni volta che pronunciavo il suo nome alzava la mano. A mio figlio più piccolo, che ha quattro anni, lo devo spiegare molto bene, perché non è facile capire per loro. Anche se il mio mestiere è molto più vicino al mondo dei bambini, ai loro giochi, che al mondo serio degli adulti. La recitazione è basata sul gioco delle emozioni, anche quando lavori con la parte drammatica dell’emotività. Si deve compiere un lavoro di ricerca e immedesimazione, anche se l’uomo non diventa mai il personaggio che interpreta.
E a teatro?
Tutto questo è ancor più evidente, più immediato. Puoi essere narratore, interpretare cento personaggi, raccontare storie fantastiche e il pubblico crederà a tutto ciò che gli proponi. Pertanto, non bisogna mai dimenticare la componente del gioco.
Stefano Accorsi © Rossella Papetti
Se tornassi bambino, quale sarebbe il profumo della tua infanzia?
Avevo una zia pellicciaia, che oggi sarebbe in grande controtendenza, e nella sua stanza ricordo questo odore di pelle e di pelliccia per nulla sgradevole, anzi, lo definirei poudree, incipriato. Lo sentivo quando stavo lì con lei e mi raccontava tutti i film che aveva visto al cinema. Ero fissato fin da piccolo. Poi c’è l’odore dell’inchiostro della tipografia di mio padre: stava in grandi barattoloni e si versava nelle macchine stampatrici.
Sei cresciuto a Bologna, ti ha lasciato qualcosa della sua visione un po’ scanzonata della vita?
Credo proprio di sì, in Emilia-Romagna ho le mie radici. Quando ci torno, sento fortemente che quella sotto i piedi è la mia terra. Una sorta di circolazione quasi sanguigna che percepisco pulsare. È una regione dove si fanno cose clamorose, basti pensare ai motori, ma sempre con ironia e leggerezza.
Il luogo del cuore nella tua città?
Faccio poca fatica a ricordarlo: piazza Santo Stefano. Poi amo molto le brume della “bassa”, quella immortalata dalle fotografie di Luigi Ghirri, grande artista di Reggio Emilia. Per me quella nebbiolina ha a che fare con il sogno, perché guardandola cominci a fantasticare. Infine, i portici di Bologna, perfetti per le lunghe camminate.
Il tuo rapporto con il viaggio sui binari?
Amo molto prendere il treno, perché muovendomi spesso tra Milano, la città dove vivo, e Roma, posso avere a disposizione del tempo per lavorare, leggere un intero copione, guardare un film fino alla fine. Un modo di viaggiare che mi piace molto. E poi adoro osservare il paesaggio dal finestrino: le numerose foto sui miei social lo testimoniano. Al di là della moto, dove senti l’aria sulla faccia, per me guardare dal finestrino del treno è il modo più poetico di volare radente al suolo.
Hai vissuto e lavorato in Francia, c’è qualcosa nel cinema che lì viene fatto meglio?
Noi italiani abbiamo le troupe migliori del mondo: persone appassionate, capaci di inventare ciò che non esiste, che davanti a un ostacolo non si fermano, bensì si eccitano. Ciò che in Francia è più forte è il sistema cinema, fatto di investimenti, proporzione, difesa del valore del film francese. Sono uniti, coesi e veramente forti.
Hai vinto grandi premi, te l’aspettavi?
Direi di no. Per il film Veloce come il vento, forse, ci speravo. Ma non te lo aspetti mai, è sempre emozionante. I premi non fanno la differenza in una carriera, ma è bello vincerli.
Come te la cavi ai fornelli?
So fare poco o nulla. Un solo piatto: lenticchie con il tonno. Tutto sta nel gioco di polso per aprire le scatolette e nel come sciacqui le lenticchie sotto l’acqua corrente.
Per toccare l’anima e il cuore degli spettatori ci vuole più esperienza o più fantasia?
L’esperienza ti dà tanto, ma credo ci voglia sempre la fantasia, la voglia di fare, provare, osare.
Articolo tratto da La Freccia
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