In cover, le ceramiche di Cinzia Fasano

La gestualità dell’artigiano rimane impressa in ogni lavoro, perché sono ben visibili mani e polpastrelli che hanno forgiato l’argilla inanimata: vasi, piatti, oggetti decorativi e da design, ceramiche da giardino, elementi di arredo, brocche, acquasantiere, gadget. Una materia che prende vita quasi come se, a ogni sguardo, restituisse il genio del creatore e il calore della fornace. Le ceramiche della famiglia Fasano colpiscono per la brillantezza dei colori e la vita che viene dipinta sui prodotti, in tutte le sue declinazioni, dalle creature del mare e della terra fino ai miti e alle leggende. Lo smalto e l’argilla si permeano diventando una cosa sola e nuova che sprigiona energia e fantasia.

 

Una storia fantastica che da Grottaglie, operoso borgo del Tarantino, si è imposta all’attenzione internazionale al punto da essere scelta per rappresentare una delle eccellenze italiane a Expo 2020 Dubai. Cinzia Fasano, dopo la laurea in Lettere e filosofia e un Master alla Sapienza di Roma, è ritornata al tornio e al cospetto della fornace insieme al padre Maurizio, figlio del capostipite Nicola Fasano, alla mamma Alba e al fratello Nicola.

Com’è nata la sua passione per la ceramica?

L’argilla fa parte del mio Dna, un cromosoma geneticamente modificato portatore di creatività, passione, dedizione, sacrificio, amore quasi devozionale verso la terra. Io e mio fratello Nicola siamo la ventesima generazione che porta avanti e difende questa tradizione. Con il mio bisnonno Francesco è nata la prima grande bottega storica: circa 200 operai impiegati nelle varie fasi produttive e migliaia di piatti, vasi, brocche e orci plasmati da mani nude e piene di crepe, come quelle di una zolla di terra asciutta.

Ogni oggetto racchiude una storia irta di ostacoli prima di arrivare sulla tavola, su un mobile o una parete. Come avviene la creazione?

All’ispirazione seguono tutte le fasi della realizzazione, perché spesso la fantasia o l’idea nella mia mente si scontrano con i limiti della materia o gli errori tecnici. Accade che l’intuizione nasca dalle richieste dei nostri clienti, da un’idea in nuce si arriva al prodotto finito, nuovo e unico. Poi bisogna fare i conti con le fasi produttive, dalla forgiatura al tornio o a mano alla modellatura, dalla prima cottura alla smaltatura, fino alla decorazione e alla seconda cottura. Fasi durante le quali interagiscono molte variabili che spesso modificano l’idea originale per poterne migliorare il risultato.

Ogni bambino ama impiastricciarsi le mani con la terra mescolata all’acqua per plasmare oggetti. In fondo, il ceramista continua a giocare per tutta la vita. Quali emozioni le dà questa manipolazione?

Racchiudo ciò che provo in una sola parola: fuoco. Un fuoco vivo che si accende dentro quando una massa di argilla inanimata prende forma, un fuoco rovente che cuoce, brucia per 12 ore durante la prima cottura e altre 12 nella seconda. Un fuoco che ha scaldato generazioni e generazioni di ceramisti, quando le fornaci andavano alimentate a carbone per una combustione continua e ininterrotta. Che si trattasse di inverno o estate, bisognava vivere in bottega senza mai lasciare la propria postazione.

E ora?

Oggi è tutto più semplice, perché questo fuoco si è trasformato in energia elettrica che fa ruotare il tornio, impasta l’argilla, ci aiuta a sciogliere gli smalti, cuoce gli oggetti. Ma se dietro tutto questo non ci fosse quello stupore misto a timore che ci perseguita ogni volta che si apre il portellone del forno, se non ci fosse quel briciolo di paura nel miscelare acqua e smalto, sperando di non sbagliare le rispettive percentuali, non saremmo noi. Artigiani, artisti, ceramisti, caminari (termine dialettale per identificare la categoria dei fornaciari, ndr), figuli, meglio conosciuti come “mitodda cilate”, in dialetto cervello oscurato, un modo simpatico per dire teste dure, teste di coccio. Ecco, per me tutto questo è magia, sentirci parte di una comunità che condivide questi sentimenti e si tramanda questa passione.

La lavorazione delle ceramiche di Cinzia Fasano in un frame tratto dal filmato di Gabriele Salvatores per Expo 2020 Dubai © Indiana Productions/Gabriele Salvatores per ItalyExpo2020

Qual è il legame tra il territorio e le vostre creazioni?

Grottaglie è la città dalle molte grotte, dove nel tempo si sono insediate famiglie figuline dedite alla produzione di ceramiche che hanno fatto conoscere il borgo in tutto il mondo. Un territorio molto generoso, dal quale non si può prescindere se vogliamo conservare intatte le origini di questa tradizione, ma allo stesso tempo è un territorio dal quale la maggior parte dei giovani scappano a causa delle scarse opportunità lavorative. Ultimamente, si sta investendo molto sulla conservazione del patrimonio materiale e immateriale dei comuni rurali, mi auguro che questi sforzi convincano e infondano fiducia nelle nuove generazioni. Proteggere la nostra identità non vuol dire soltanto mantenere intatta l’architettura del quartiere delle ceramiche, significa anche conservare e tramandare un’infinità di decori caratteristici e storici che identificano la ceramica grottagliese distinguendola dalle altre realtà italiane. A questo bisogna affiancare il nostro estro personale, che fa nascere nuove collezioni partendo sempre dalla base, l’argilla.

Cosa significa per voi rappresentare l’Italia del saper fare a Expo 2020 Dubai?

In un mondo così globalizzato, ma allo stesso tempo minacciato da crisi economiche e sanitarie, queste occasioni sono vitali per piccole realtà imprenditoriali come la nostra. Attraverso un filmato, una mostra, una collezione si racconta chi siamo, di cosa viviamo e perché continuiamo a crederci, per quale motivo io a 35 anni con due figlie, una laurea e un’attività sulle spalle da 11 anni non mollo. Lavoriamo onestamente, viviamo semplicemente, siamo l’Italia vera, quella che non tradisce le sue origini né gli insegnamenti che il passato ci ha trasmesso. Pretendiamo solo rispetto, per i sacrifici e gli sforzi che ogni giorno siamo chiamati a compiere per rimanere in linea con quanto il nostro Stato ci chiede.

Articolo tratto da La Freccia