È senza dubbio una delle attrici più talentuose del cinema e del teatro italiano. Una caratura professionale capace di convincere grandi come Eduardo De Filippo, Steno, Mario Monicelli, Luciano De Crescenzo e Federico Fellini. Marina Confalone riesce a passare dal dramma alla commedia: diverte e, un attimo dopo, commuove. In un marasma di emozioni e talento che emerge da pellicole cult come Febbre da cavallo, Incantesimo napoletano, Il marchese del Grillo, Così parlò Bellavista e Parenti serpenti. In questi giorni illumina la Mostra del cinema di Venezia con Il silenzio grande, film diretto da Alessandro Gassmann, evento speciale alle Giornate degli autori, tratto dall’omonimo spettacolo teatrale scritto da Maurizio de Giovanni. E in uscita nelle sale il 16 di questo mese, grazie a Vision Distribution.

 

Cosa l’ha spinta ad accettare il ruolo di questa pellicola?

Lavorare in una splendida commedia, che ho visto a teatro, mi è sembrato un regalo. E poi, dopo tante parti conflittuali, la bontà del personaggio che interpreto mi ha fatto tornare bambina: la colf Bettina ha una dolcezza che appartiene solo alle creature semplici e dal cuore grande. È un po’ come mi piacerebbe essere: saggia, paziente, delicata come un essere angelico. Fa di tutto per non far soffrire il professore del quale è invaghita, nascondendogli la verità gioca con lui. È una persona che non ha studiato, ma arriva sempre nel profondo.

 

Nella film si parla di quanta paura faccia il silenzio. Lei l’ha mai provata?

Pensi che mio padre non mi ha parlato per 18 anni a causa di una sciocchezza, era molto severo. Il silenzio è pesato moltissimo nella mia vita e in quella della mia famiglia. Purtroppo, quando abbiamo chiarito, l’ho perso dopo pochissimi mesi. È impossibile sanare questa frattura, una pena che mi ha provocato molta sofferenza.

 

È riuscita a tradurre questo dolore in qualcos’altro?

Sì, nella pièce La musica in fondo al mare, un bellissimo esperimento di teatro senza parole che feci nel 1991. La storia di due sordomuti, un uomo e una donna, che si trovano chiusi in un magazzino dove si riparano televisori. Sono costretti a passare il weekend insieme, tra antipatia, gioco e scoperta della comunicazione e dell’amore. Ha debuttato al festival di Asti, è stato ripreso più volte e si è rivelato un successo.

Marina Confalone

© Daniele Venturelli

Tornando al film, Bettina a un certo punto afferma che il silenzio fa paura a sentirlo…

Il silenzio è terrificante, anche se in questo momento sarebbe piacevolissimo averne un po’. Napoli è diventata caotica: abbiamo tutti voglia di tornare alla libertà, ma non ricordo di aver mai sentito tanto rumore come ora. Per questo scappo a Stromboli, un’isoletta tranquilla dove spero, prima o poi, di ritirarmi definitivamente. È il tipo di vita che mi piacerebbe fare.

 

Da napoletana cosa pensa della sua città?

Tante persone non sopportano i nostri difetti. Ce ne sono, per carità, ma è un posto dove abbiamo tutto: la miseria e l’aristocrazia, la gente onesta e quella un po’ cattiva, la bellezza dell’arte, la campagna, la montagna, il mare. Qui si può girare qualsiasi film, ci sono scenografie naturali pazzesche.

 

Lei ha interpretato moltissimi ruoli, ma quello di Lina in Parenti serpenti, diretto da Mario Monicelli, resta un cult. Con tanto di gif e meme sui social network.

È stato un film magico. Monicelli ci ha messo nella condizione di non sentirci su un set e, dopo averlo girato, l’ha definita la sua regia più bella. Cosa che mi ha sbalordita, vista la sua nutrita filmografia di titoli tanto importanti. Ma era proprio così.

 

Come mai, secondo lei?

Si è divertito a creare stratificazioni: ci sono attori ripresi in primo piano e altri in secondo piano. È un film dallo spirito cattivo com’era lui, in qualche modo. Non avevamo la sensazione di recitare, costruiva le scene con una verità che ci faceva credere di essere a casa, in famiglia, mentre qualcuno trasportava la stufa, pelava patate o si vestiva da carabiniere. Non era una commedia, lo è diventata dopo, ma lui l’ha orchestrata come una regia teatrale. Una bellissima esperienza.

 

E invece com’è andata con Alessandro Gassmann, regista del suo ultimo film?

Credo abbia amato il copione perché ha ritrovato qualcosa di sé nel testo di Maurizio de Giovanni. Forse il suo vissuto di figlio con un genitore ingombrante. Ha tirato fuori e favorito gli umori e gli aspetti che possono piacere al pubblico in un film rischiosissimo, che si svolge in una stanza.

 

Oltre a questo progetto che cosa sta facendo?

Al Campania Teatro Festival ho debuttato con Blumunn, la storia di una cantante di piano bar, vulcano di rimpianti e speranze, che ritorna dopo tanto tempo nel locale dove si è esibita per una vita. Scrivo da sempre e questo mi rende selettiva verso i copioni che mi propongono: ho la pretesa di capire cosa ha interesse per me o meno.

 

Che attrice crede di essere?

Sento un prepotente istinto a fuggire in cerca di qualcosa di inedito. Mi sono permessa anche rifiuti clamorosi, come il varietà del sabato sera nel ruolo di valletta comica, la fiction Un medico in famiglia, film popolari come Speriamo che sia femmina e Benvenuti al Sud. Ho accettato, però, opere prime: il mio obiettivo è sentirmi libera, non fare quello che piace alla maggioranza. Anche Blumunn nasce in quest’ottica, ma stranamente ne è uscito un lavoro di ampio respiro, per la gente.

 

Da cosa è nato questo spettacolo, che torna in scena al Teatro Mercadante di Napoli dal 2 al 7 novembre?

Da una mia amarezza legata al fatto di aver lavorato poco per un periodo. Superato quel momento di malinconia, grazie anche ai tanti premi ricevuti, non avevo più voglia di parlare di fallimento. Così io e il personaggio siamo risorte, trasformando l’opera in una commedia divertentissima.