Un numero in gran parte dedicato alla Giornata mondiale della Terra, e alle riflessioni che l’appuntamento sollecita, Medialogando ospita una testata storica dell’ambientalismo italiano, La Nuova Ecologia. A presentarla è il suo direttore Francesco Loiacono, un predestinato, per chi crede alle coincidenze del fato. Loiacono nasce infatti lo stesso giorno in cui dall’azienda Icmesa di Meda fuoriesce una nube tossica di diossina che colpisce in particolare Seveso, nella bassa Brianza, provocando uno dei più gravi disastri ambientali della storia, con centinaia di intossicati e sfollati, 80mila animali morti o abbattuti. Era il 10 luglio 1976 e tre anni più tardi esce il primo numero de La Nuova Ecologia, “dal 1979 dalla parte del pianeta”. Così Loiacono racconta i primi passi del mensile: «Il primo numero esce a Milano nel gennaio 1979, a fondarlo un gruppo di giovani ricercatori e universitari con la passione per la divulgazione e il giornalismo. Il primo direttore è stato il professore Virginio Bettini, scomparso lo scorso anno. Con lui c’era, tra i suoi studenti, quello che poi gli sarebbe succeduto, Andrea Poggio, figura storica del movimento ambientalista italiano e ancora oggi dirigente di Legambiente. L’intero comitato di redazione era allargato a personalità del mondo scientifico e dell’ambientalismo, da Massimo Scalia a Gianni Mattioli, da Antonio Cederna a Enzo Tiezzi, da Marcello Cini fino a Laura Conti. Il numero 100 della rivista ha voluto omaggiarli con una foto di copertina che li ritrae tutti insieme, in una villa romana».

 

Uomini e donne di scienza uniti dal desiderio di trasmettere la loro passione fuori dalle aule universitarie. È così?

Sì, alla ricerca di uno strumento che glielo consentisse. Infatti, nel primo editoriale, Bettini scrisse: «Adesso abbiamo la barca, facciamola navigare». Erano scienziati prestati al giornalismo con l’obiettivo di rendere fruibili le loro conoscenze a un pubblico più ampio. La loro storia si intreccia con quelle della rivista, di Legambiente e del suo comitato scientifico. Ti ho citato non a caso Laura Conti, una delle fondatrici dell’associazione. Il 31 marzo è stato il centenario della nascita e sul numero di aprile le dedichiamo un servizio speciale, perché da 20 anni la nostra cooperativa editoriale organizza un corso di giornalismo ambientale intitolato proprio a lei: donna di scienza, medico, scrittrice, divulgatrice, partigiana, confinata per alcuni mesi, a 23 anni, in un campo di concentramento a Bolzano. Fu in prima linea dopo l’incidente di Seveso, quando da consigliera regionale riuscì a stare vicina alla gente, a parlare e spiegare cosa era accaduto.

 

Un evento che, oltre a coincidere con la tua data di nascita, segnò un discrimine netto per l’ambientalismo.

Laura Conti scrisse anche due libri su Seveso, dimostrando quanto sia importante informare e sensibilizzare. Infatti, il corso di giornalismo a lei intitolato è stato frequentato negli anni da centinaia di ragazzi, tra i quali io stesso, nel 2002. Primo passo di un percorso che un paio di anni fa mi ha portato alla direzione.

 

Quindi da scienziati ambientalisti con la passione per il giornalismo a giornalisti con la passione per l’ambiente e la scienza.

Credo che questo sia un po’ quello che è accaduto a tutto il giornalismo ambientale in questi 40 anni. Negli ultimi 15, il turnover ha portato nelle testate ideate da quei precursori una generazione di giornalisti con la passione per l’ambiente. Tra questi, rimasto alla direzione de La Nuova Ecologia per una decina d’anni, anche Paolo Gentiloni, oggi commissario europeo per l'economia. Lavoriamo tutti a stretto contatto con i ricercatori scientifici, le università, gli istituti di ricerca pubblici, penso all’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (Ispra). Perché trattare l’ambiente significa trattare la complessità e, come giornalisti, rendere semplice la lettura di elementi e fenomeni complessi.

 

Ma significa anche altro…

Significa costruire le informazioni su fonti solide e verificate: è necessario e deontologicamente dovuto. Per questo, e anche per conferire al proprio lavoro maggiore sicurezza e padronanza, qualche competenza scientifica aiuta.

La pubblicistica di questi 40 anni ha contribuito a far crescere

l’attenzione all’ambiente e alla sostenibilità?

Secondo me sì. L’opera di informazione e di educazione ambientale, nata su alcune riviste o su giornali come il nostro, è senz’altro arrivata ai cittadini. Quello che ancora a volte difetta è la capacità di incidere sull’agenda politica.

 

La vostra però è una testata di nicchia, un “verticale”

come si dice in gergo: vi cerca chi coltiva già una personale

passione per i temi trattati.

È vero, in tanti sono mossi da una propria sensibilità, che aiutiamo a consolidare in coscienza e responsabilità civica. Però, soprattutto negli ultimi anni, abbiamo saputo uscire dalla nicchia, e i nostri media si sono aperti al digitale. Lanuovaecologia.it, nell’ottobre del 2002, è stato il primo quotidiano dedicato all’ambiente a sbarcare sul web. Alla fine, anche i media mainstream hanno finito con l’occuparsi sempre di più di questo argomento. Fino ad arrivare ai giorni nostri, quando la nascita addirittura di un ministero per la Transizione ecologica li ha costretti a farlo. E noi, nell’occasione, siamo stati tempestati di domande.

 

Insomma, i temi legati all’ecologia sono diventati, o tornati, d’attualità, nonostante la pandemia monopolizzi ancora, e inevitabilmente, l’attenzione mediatica.

Sì, ma ancora non abbastanza per l’importanza che hanno per il futuro nostro e delle nuove generazioni. Il bicchiere resta mezzo vuoto finché, ribadisco, non riusciamo a incidere più profondamente nell’agenda politica.

 

Però il nuovo ministero che hai citato, e il cambio del nome per quello che oggi è il ministero delle Infrastrutture e della mobilità sostenibili, indicano un cambio di passo.

Un’accelerazione lodevole. Sebbene sarebbe stato giusto e salvifico, anche per il pianeta, accelerare qualche anno fa, perché il tempo veramente stringe.

 

Se il tempo stringe, vanno sfruttate le enormi potenzialità del digitale. Per smuovere la politica, che cerca il consenso rispondendo alle sollecitazioni dell’opinione pubblica e ai suoi bisogni reali o fittizi, occorre agire su quest’ultima. Voi come vi state muovendo?

Intanto è bastato essere sul web per moltiplicare i contatti e, con una semplice ricerca su google, intercettare tanti lettori che altrimenti non avremmo mai raggiunto. Poi abbiamo frazionato la comunicazione su più canali, aperto una pagina facebook, twitter e instagram. E nel 2020 un canale podcast dove riversiamo soprattutto i contenuti della nostra sezione Gaia, quelli un po’ più scientifici, sul mondo animale e sugli ecosistemi, tradotti in un linguaggio semplice. E poi negli anni abbiamo dedicato tanto impegno alle dirette in streaming, oggi diventate una normalità. «In streaming prima di Beppe Grillo», scherzava un nostro ex direttore, dimostrando che a volte in piccole realtà si hanno intuizioni che anticipano veri e propri trend. Ecco, noi le facciamo da dieci anni, per illustrare i rapporti dell’associazione, lanciare ogni mese la rivista, presentare eventi sull’economia circolare, l’energia da fonti rinnovabili o l’efficientamento energetico. Dirette streaming che poi restano disponibili on demand.

 

Tutto questo riesce a scuotere l’opinione pubblica? Oltre al medium valgono i contenuti.

Ce ne sono tanti che incidono sulla vita quotidiana delle persone e mostrando i vantaggi di alcuni comportamenti virtuosi sull’ambiente inducono i singoli consumatori a cambiare stili di vita. Ma il risultato più grande lo ottieni quando con le tue inchieste riesci a far cambiare le politiche e gli investimenti. Quando bonifichi, per esempio, i territori. E in Italia ce ne sono tantissimi da bonificare.

 

Ecco, parliamo d’inchieste e approfondimenti, sale del giornalismo e pungolo forte anche per amministratori, locali e nazionali.

Noi dedichiamo sempre tanto impegno alle inchieste, concentrandoci in particolare su quelle legate ai macroproblemi ambientali: le bonifiche, l’inquinamento, l’abusivismo edilizio, il dissesto idrogeologico. Da redattore ne ho fatte molte, con un’attenzione particolare, da tarantino, all’ex Ilva. Ecco, in Italia abbiamo tanti territori da bonificare, siti di interesse nazionale dove esistevano industrie pesanti, e il piano nazionale per sistemare questi siti va avanti, ma a rilento. Poi penso all’amianto.

Altra questione delicatissima, che ha provocato ferite e lutti in molte famiglie.

E continuerà a mietere vittime, soprattutto per mesotelioma pleurico. Oggi se ne calcolano seimila all’anno, ma il picco arriverà tra il 2025 e il 2030. Il 28 aprile è la giornata dedicata alle vittime dell’amianto. A più riprese La Nuova Ecologia ha denunciato i rischi e chiesto una bonifica di tutti quei manufatti che contengono ancora amianto in Italia.

 

Poi citavi l’abusivismo.

Sì, è un altro dei nostri temi forti. Perché è una piaga senza fine e non circoscritta solamente al Sud. Si fatica a fare prevenzione e persino a far rispettare la sentenza di un giudice che ordina un abbattimento. Non si capisce che la questione è strettamente connessa al dissesto idrogeologico, altro problema tipicamente italiano.

 

Perché?

Perché abbiamo reso ancora più fragile, costruendo abusivamente e in aree dove non si doveva costruire, un territorio dall’equilibrio già delicato per le sue particolari caratteristiche geomorfologiche. Il problema del dissesto idrogeologico merita, come per le bonifiche, un impegno costante in risorse finanziarie e umane. Sebbene negli ultimi anni qualcosa si sia mosso e alcune risorse siano state stanziate, sono ancora troppi i cittadini italiani che vivono in aree a rischio. E qui l’informazione può e deve fare di più.

 

Come?

Ti faccio un esempio. Nel novembre 2018 la cronaca ha raccontato il caso di un’intera famiglia, a Palermo, travolta dalla piena di un torrente mentre era a casa a festeggiare un compleanno. Siamo rimasti tutti, per più giorni, sconvolti per l’immane tragedia. Ma non si è trattato di una fatalità: il cancello di quella casetta si trovava sul letto di un torrente, che può essere in secca anche per 350 giorni all’anno ma prima o poi si riempie d’acqua. Ecco, il giornalismo deve essere più costante nel denunciare gli scempi che portano i cittadini a vivere queste situazioni di pericolo.

 

In sostanza, dici che troppo spesso è l’attualità a dare l’input a un approfondimento, del tutto estemporaneo, che dovrebbe invece essere più costante e incalzante, se davvero il giornalismo vuole essere il cane da guardia del potere, in tutte le sue declinazioni. Oggi il giornalismo, e non solo, si riempie la bocca di un termine di gran voga: la resilienza. Solo una moda? Aiutaci a capire.

La resilienza è la capacità di sapersi adattare in maniera positiva a un evento, anche drammatico. Vale anche per le infrastrutture che, ad esempio, per rispondere bene ai terremoti devono essere capaci di assorbire il colpo, facendo degradare la sollecitazione meccanica nell’arco di spazio e tempo. Però sì, il concetto di resilienza è un po’ abusato. A dover essere veramente resiliente è il territorio.

 

Perché?

Perché viene sempre di più sollecitato da eventi meteorologici estremi, che cambiano anche repentinamente. Si può passare nel giro di poco tempo dalla siccità all’eccesso di piogge. E più un territorio è cementificato, meno è “naturale” e meno resiste e si adatta a questi eventi.

 

Quindi?

Dobbiamo riappropriarci della sapienza che per secoli ha permesso all’uomo di gestire l’equilibrio tra la pietra, la terra, l’acqua, facendo nascere e preservando splendidi borghi in contesti naturali complessi, tra Alpi, Appennini e colline. Complice forse un’eccessiva fiducia negli strumenti del progresso tecnologico, questo equilibrio è diventato precario e l’uomo ha pensato addirittura di poterlo spezzare. Ma in realtà non ce lo possiamo permettere. Oggi ancor meno che 40 anni fa.

 

E poi c’è il capitolo a noi caro della mobilità e la ventennale liaison tra FS Italiane e Legambiente con il Treno Verde.

Il treno deve essere al centro della riorganizzazione degli spostamenti, soprattutto delle persone che per lavoro e studio si muovono ogni giorno verso le grandi aree urbane: i pendolari. La mobilità è strettamente legata alla qualità della vita e alla salute dei cittadini, ecco perché dobbiamo ridisegnare le città dando spazio a quella sostenibile.

Articolo tratto da La Freccia