Dopo averlo sperimentato in modo massiccio durante l'anno del Covid, il 60% delle organizzazioni ritiene necessario e urgente investire sul lavoro agile e il 67% mette la digitalizzazione in cima alle priorità.

 

L’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano stima che, finita l’emergenza sanitaria, a lavorare almeno in parte da remoto saranno più di cinque milioni di italiani, a fronte dei 570mila censiti nel 2019. Il maggior numero di smart worker (2,11 milioni) si trova nelle grandi aziende, 1,13 milioni nelle Pmi, 1,5 nelle microimprese sotto i dieci addetti e 1,85 nella Pubblica amministrazione.

 

«Ma arriviamo tardi, questo scenario già da tempo doveva rappresentare il futuro», chiosa Andrea Solimene, Ceo di Seedble. «Si è parlato tanto di quarta rivoluzione industriale, ma solo sulla carta. E ora stiamo soffrendo la scarsa attenzione dedicata all’innovazione – tecnologica, di business e sociale – da parte del mondo corporate e delle istituzioni. L’Italia deve necessariamente colmare questo gap dando maggior spazio ai giovani su temi come riforma dell’istruzione e del lavoro, incentivi alle imprese e digitalizzazione (vera) della Pubblica amministrazione, affidando alle generazioni passate il ruolo di mentore per trasferire know-how. Insomma, fare tutto quello che non si è fatto negli ultimi 40 anni».

 

Che poi è l’obiettivo di Seedble. Quando è nata la vostra impresa?

Parte come progetto nel 2013 e si evolve in Srl nel 2014 da un’idea mia e del cofondatore Giovanni Tufani, con uno scopo preciso: portare innovazione strategica, digitale e organizzativa nelle aziende. La prima riguarda i modelli di business, la seconda abbraccia la trasformazione che passa attraverso le nuove tecnologie e la terza si focalizza sulla cultura delle persone e sul modo di lavorare e collaborare. Oggi abbiamo tra i clienti grandi realtà come Eni e Ovs, oltre a startup e imprese in crescita, e ci occupiamo di corporate innovation e accelerazione di business. Ora facciamo parte del gruppo Symphonie Prime, abbiamo sede a Roma ma siamo presenti anche in Germania, Spagna, Svizzera e Olanda. Proprio agli olandesi ci siamo ispirati per analizzare l’uso dello smart working, che lì chiamano way of working perché il lavoro flessibile è per loro la normalità.

 

Cosa significa davvero smart working?

È un approccio di lavoro con cui le persone acquisiscono maggiore responsabilità, flessibilità e fiducia nel determinare come, dove, quando e con quali mezzi svolgere il proprio lavoro in relazione agli obiettivi e ai valori dell’azienda. Offre un paradigma people-oriented che esalta il benessere e la produttività individuale, impattando positivamente su quella collettiva. Così, con il contributo di Philip Vanhoutte, uno dei padri fondatori del modello olandese, nel 2015 abbiamo realizzato un e-book gratuito per avvicinare le persone allo smart working, poi una guida e, infine, il portale Exploring Smart Working

Fino a qualche anno fa in Italia se ne parlava appena…

Sì, prima del 2019 eravamo considerati dei veri e propri stregoni, poi diverse organizzazioni hanno cominciato ad avvicinarsi allo smart working per lanciare un messaggio di posizionamento basato sull’innovazione. Finché non è arrivata la pandemia e questo modo di lavorare si è trasformato da moda a questione di sopravvivenza. Oggi possiamo dire che se la maggior parte delle imprese e degli enti pubblici sono riusciti a garantire una business continuity è perché le persone hanno saputo adattarsi al cambiamento repentino, e con non pochi sacrifici. Ora il punto è proseguire in questa direzione, anche e soprattutto senza Covid-19, ma occorre perfezionare la visione flessibile del lavoro, non limitarsi agli strumenti informatici.

 

Non basta lavorare da casa, quindi?

Assolutamente no: l’home working è solo una parte dello smart working, come lo è il remote working. Il primo si avvicina più al telelavoro, permette di svolgere una serie di attività da casa utilizzando un pc e una connessione aziendale. Il remote working è un concetto più esteso perché consente di lavorare anche da altre sedi, per esempio in spazi di coworking come Copernico, Talent Garden o Regus, o in stazioni e aeroporti. Lo smart working, invece, è una filosofia più ampia perché non si lega soltanto al luogo dove viene svolto ma a un approccio culturale che comprende comportamenti, modelli gestionali e di leadership. Implica un’educazione completa e un’organizzazione del lavoro basata sull’utilizzo combinato di strumenti di relazione diversi, dall’e-mail al telefono alle piattaforme online.

 

La sperimentazione forzata nell’anno del Covid-19 ha dimostrato il valore di questo approccio. Ma quali sono state le criticità, secondo la vostra esperienza?

Partiamo da un fatto: alcune organizzazioni come Ferrovie dello Stato Italiane, Enel, Vodafone, American Express avevano avviato un processo di trasformazione in questo senso già prima della pandemia e hanno avuto meno difficoltà a implementare lo smart working. Ma ci sono anche aziende che non si sono mai poste questo obiettivo e ora stanno improvvisando, puntando soprattutto su tecnologie e strumenti digitali senza mettere al centro le persone, i bisogni dei lavoratori. Chi non era preparato ha faticato molto a gestire le nuove modalità di comunicazione. In questo momento, però, si presentano altre criticità trasformabili in opportunità: per esempio, ora che basta riadattare spazi più piccoli alla turnazione del personale in presenza bisogna pensare a come rivalorizzare e mettere a reddito migliaia di metri quadrati che restano inutilizzati. Senza contare che lo smart working diventa anche il presupposto per attrarre nuovi talenti, che oggi sceglieranno sempre di più realtà in grado di offrire questa opportunità, a scapito di chi fa resistenza e non vuole evolversi.

 

Un altro aspetto importante che sta cambiando è la formazione professionale. Certamente. Anche qui si stanno evolvendo le modalità: alcune ore di laboratori in presenza restano comunque importanti, ma ci sono altri canali da utilizzare come webinar e momenti di didattica a distanza più brevi, diluiti nel tempo. Durante il lockdown siamo stati sommersi di richieste di formazione per trasformare le persone in perfetti remote worker e abbiamo cercato di far capire alle organizzazioni che occorreva anche educare alla comprensione delle dinamiche e dei processi alla base dello smart working.

 

Facendo tesoro dell’esperienza del 2020, quali sono le cattive abitudini da combattere?

Pensare che questo processo si possa applicare dall’oggi al domani. Non è così, perché si tratta di aggiornare un sistema lavorativo rimasto fermo sostanzialmente a 30 anni fa. Non bisogna poi fare resistenza per evitare di modificare gli equilibri raggiunti negli anni. Niente panico, perché si tratta di innovazione. Infine, è importante non focalizzarsi sull’immediato, ma guardare oltre e considerare gli effetti sociali e ambientali di questo modo di lavorare. Tantissime persone vedono aumentato il proprio benessere psicofisico perché grazie allo smart working si sono potute trasferire in piccoli centri, lontano dalle grandi città, in una casa più bella, più grande, magari in mezzo alla natura e spendendo anche meno, ripopolando borghi e campagne.

 

E se una persona è felice è anche più produttiva.

Certamente, ma non solo: questi cambiamenti se ne portano dietro altri, riducendo il divario digitale e spingendo a implementare infrastrutture tecnologiche, con maggior attenzione alla sostenibilità. E qui mi sento di lanciare una sfida a chi si occupa di trasporti: è fondamentale puntare sempre di più ai collegamenti con i piccoli borghi. Smart working non significa infatti isolamento, ma avere l’opportunità di raggiungere grandi centri e sedi di lavoro con frequenza e in sicurezza. È una grande opportunità per il sistema Italia, che a cascata coinvolge altre realtà. Potrei sembrare cinico ma credo che anche se la pandemia non è certo una cosa di cui essere contenti, a distanza di anni potremo apprezzare alcune delle cose che ha generato. Tutto è stato messo in gioco e, anche nella tragicità di chi ha perso il lavoro e delle imprese in affanno, bisogna restare positivi e guardare a quei casi in cui a vincere è la capacità di rinnovarsi, la creatività e la tenacia. I casi positivi servono come esempio per evolversi. Il valore economico e sociale della collaborazione tra imprese è importantissimo, ed è quello che noi di Seedble ci auguriamo per il 2021. Il nostro obiettivo è la coalescence innovation: la contaminazione e la collaborazione tra due o più agenti di cambiamento per generare opportunità non raggiungibili singolarmente e dar vita a ecosistemi virtuosi. 

 

Articolo tratto dalla Freccia gennaio 2021