Nata a Crotone, ha frequentato l’università a Firenze, dove vive da 40 anni, e lavora a Parma, che raggiunge in treno, dove dirige il Teatro Regio. Una donna concentrata sulle sue responsabilità, dinamica e creativa, in città si muove in scooter, anche per fare la spesa e portare i figli a scuola: «Ora mia figlia ha 20 anni ed è indipendente, ma mio figlio che ne ha 17 ancora lo accompagno alla scuola di musica a Fiesole». Sguardo profondo e solare quello di Anna Maria Meo, mentre racconta la sua passione per la musica e la cultura guardando il panorama di Firenze dalla loggia di Villa San Michele, dove l’abbiamo incontrata.

 

In che modo sei arrivata al Teatro Regio di Parma?

Attraverso diverse esperienze professionali: dal primo stage al Covent Garden theatre di Londra, nel 1988, passando per Wexford, in Irlanda, dove lavoravo all’Opera Festival, poi in Inghilterra per la Fondazione William Walton, che ha anche una sede a Ischia (NA) dove il compositore ha vissuto, e per il Teatro del Carretto di Lucca che faceva grandi tournée internazionali.

 

Come direttore generale del Regio di Parma sei anche vicepresidente di un’associazione europea del settore.

Il Regio è membro da poco dell’associazione, dopo il mio insediamento nel 2015. Fu Barbara Minghetti, oggi curatrice di Verdi Off e allora presidente dell’Associazione lirica e concertistica italiana e del Teatro Sociale di Como, oltre che consigliere di Opera Europa, a suggerirmi l’opportunità e io accettai subito. Dopo tre anni siamo entrati nel board e oggi sono vicepresidente di Opera Europa.

 

L’Italia della lirica ha la sua importanza nel mondo?

Certamente, per la sua tradizione, il numero dei palchi e la qualità della programmazione: il ruolo in questa associazione riflette quello del nostro Paese, possiamo tessere relazioni e raccontare ciò che fanno i nostri teatri in numerose occasioni di approfondimento e confronto. In quella sede riporto tutto ciò che funziona, il supporto delle istituzioni locali, nel nostro caso il Comune di Parma e la Regione Emilia-Romagna, tralasciando problematiche generiche come l’atavica mancanza di fondi. Il modello italiano di produzione teatrale è molto più interessante di altri. Dobbiamo cercare la qualità, non alzare il sipario per forza.

 

Quale spettacolo ha riaperto la stagione del Regio?

Un Rigoletto all’aperto, opera interpretata da una selezione di giovani cantanti. In Italia c’è una vitalità operistica non comune agli altri Paesi europei, da Roma a Ravenna, con il Maestro Riccardo Muti, fino a Macerata. Noi abbiamo confermato il Festival Verdi a Parma e Busseto dall’11 settembre al 10 ottobre, data del compleanno di Giuseppe Verdi.

 

Ci saranno cambiamenti quest’anno al Festival?

Lo abbiamo rimodulato, rinunciando alla dimensione scenica per allargare gli spazi del palcoscenico. Per avere una platea da mille persone, che renda plausibile lo sforzo produttivo ed economico, lo spazio deve essere molto vasto pur con cantanti, coro e orchestra statici. Muovere le scenografie avrebbe significato investimenti enormi, che stridono con il comune sentire e le difficoltà che vaste fasce della popolazione stanno vivendo. Dobbiamo riprendere con entusiasmo, concretezza e qualità, ma con sobrietà. Il teatro è fatto di pubblico, che a Parma è esperto e con il quale abbiamo dialettica, di rapporto con le comunità e di appassionati che vengono, per i due terzi, da fuori città. Sono queste le priorità. Poi c’è la bellissima dimensione delle centinaia di addetti ai lavori che arrivano per il festival e vivono profondamente questi luoghi, portando anche indotto economico. L’università di Parma ha valutato che da ogni euro investito se ne ricavano due e mezzo. Abbiamo meritato il Premio Cultura+Impresa 2019-2020. 

Il Teatro Regio di Parma

Il teatro ha una forte valenza educativa.

Sì e dobbiamo fare uno sforzo per rimarcarlo. L’Opera viene troppo spesso percepita, erroneamente, come una forma di intrattenimento per anziani e ricchi signori, un “vulnus” tremendo. Da cinque anni abbiamo sviluppato il progetto sociale Verdi Off che, durante il festival, porta la musica fuori dagli spazi istituzionali: all’auditorium del carcere, con un coro composto da detenuti, nelle case di riposo, negli ospedali, nei quartieri popolari fin nelle case dei parmigiani, che rispondono con entusiasmo e non fanno mai mancare un assaggio di Parmigiano Reggiano e un bicchiere di Lambrusco agli ospiti internazionali. Bellissimo. Poi c’è la Verdi Parade, con oltre duemila artisti, scuole di musica e di danza. Rinnovare l’Opera rendendola accessibile, partecipativa e inclusiva è un lavoro complesso, ma si può fare e ne vale la pena, perché si amplia la comunità. Cultura per tutti come servizio. Ci vuole passione perché la routine, nel campo dell’arte, uccide qualsiasi prospettiva Abbiamo anche una stagione teatrale dedicata a bambini e famiglie.

 

Oggi si può studiare per diventare direttore di teatro lirico?

Sì, ci sono corsi e master in Gestione dei beni culturali. Io ho frequentato uno dei primissimi corsi post laurea organizzato dalla Regione Toscana, all’epoca era innovativo. Ho avuto la fortuna di avere come insegnanti il direttore degli allestimenti del Teatro Alla Scala, il direttore artistico del Maggio Fiorentino, professionisti che insegnavano la tecnica ma che soprattutto sapevano trasferire la magia che questo mondo racchiude. Poi uno stage al Maggio Musicale Fiorentino fu folgorante, toccai con mano la meraviglia del mio lavoro.

 

Quale momento del tuo lavoro al Regio di Parma ti dà più adrenalina?

Direi proprio le prove del Festival Verdi, perché debuttano quattro allestimenti diversi, pertanto ogni passaggio è moltiplicato, con i cast, i team creativi, gli artisti, le tensioni di quattro prime e la dicotomia tra spettacolo teatrale e musicale, tipica dell’Opera, con prove separate.

 

E tu al centro di tutto.

Con l’elmetto e le cinture allacciate (ride, ndr), considerando che alla fine è l’aspetto umano il più importante. Noi dobbiamo portare a casa lo spettacolo.

 

Cosa non ti piace e cosa apprezzi nelle persone?

Mi infastidisce sentire chi disserta di argomenti che non conosce, prefigurando soluzioni impraticabili, senza rispetto del lavoro altrui. Come diciamo in Toscana, coloro che aprono la bocca e lasciano andare. Apprezzo molto, invece, la disponibilità all’ascolto, la permeabilità di chi è disposto a cambiare idea con atteggiamento costruttivo.

 

Da spettatrice, invece, che atteggiamento hai?

Nel mio teatro partecipato e commosso, perché so bene cosa c’è dietro a ogni passaggio. Negli altri sono curiosissima e bevo ogni singolo sorso di cultura amo vedere tutto il possibile.

 

I tuoi figli hanno seguito le tue orme?

Giuliana ha studiato musica e poi è andata su altro, Federico, il più giovane, studia violino alla scuola di Fiesole ed è stato stregato dalla dimensione intellettuale e umana del luogo. Devo dire però che, in un Paese civile, aver derubricato l’educazione musicale nelle scuole al nulla che è oggi è davvero un delitto, la musica non può restare fuori dal processo educativo.

 

Che mamma sei?

Una mamma del Sud che ha come dimensione di trasmissione dell’affetto quella del cibo: li nutro, li curo e cucino per loro, anche per sopire qualche senso di colpa relativo al fatto che sono spesso fuori.

 

Piatto forte?

Spazio dalla cucina calabrese a quella salentina di mio marito fino a quella toscana. Adesso ho imparato a fare gli anolini parmigiani. Conoscere un luogo passa anche dalla tradizione gastronomica.

 

Il profumo della tua infanzia a Crotone?

Quando ero ragazza si usciva all’alba in mare con il gommone, senza creme solari, inconsapevoli del buco nell’ozono. Nella borsa frigo, vino bianco e una ruota di pane di grano. Al largo pescavamo i ricci e li mangiavamo. Ecco, il profumo dei ricci e la fotografia del mare di Capo Colonna impressa nella mente.

 

Perché alla fine sei donna del Sud.

Non solo alla fine, ma anche all’inizio.