Li chiamiamo eroi in un periodo come questo in cui il bisogno che la collettività ha di loro è vitale. Sono i medici, professionisti pronti a spendersi per il bene altrui ogni giorno, anche quando non c’è un virus di mezzo. Ed è proprio a loro che è dedicata la fiction Doc. Nelle tue mani, serie in onda su Rai1 dal 26 marzo, prodotta da Lux Vide e Rai Fiction, con la regia di Jan Maria Michelini e Ciro Visco.

 

Il protagonista è Andrea Fanti, interpretato da Luca Argentero (magistralmente, come ci ha abituati a vederlo), un medico che, per quanto autorevole, sicuro e impeccabile, non prova nessuna empatia per i suoi pazienti. Almeno fino a quando non è costretto a vestire i loro panni: un trauma cerebrale lo priva della memoria degli ultimi 12 anni, facendolo piombare in un mondo sconosciuto, dove famiglia, figli e colleghi diventano quasi estranei.

 

La trama è ispirata alla storia vera accaduta a Pierdante Piccioni, un primario dell’ospedale di Lodi che, a causa di un incidente stradale nel 2013, subisce una lesione cerebrale, perdendo i ricordi degli ultimi 12 anni. Una volta svegliatosi dal coma si trova nella situazione di doversi ricostruire una vita, vedendo i suoi bambini ormai adulti, la moglie con le rughe, l’euro al posto della lira. Una vicenda emozionante ricostruita nei libri Meno dodici e Pronto Soccorso, scritti dallo stesso Piccioni e Pierangelo Sapegno, editi da Mondadori.

Luca Argentero e Pierdante Piccioni

La fiction, sceneggiata da Francesco Arlanch e Viola Rispoli, ha tutti i tratti tipici del medical drama: l’ambientazione in un ospedale, gli eventi romanzati che travalicano il lavoro e si soffermano sulle vite personali dei personaggi, una storia d’amore. Ed è per questo che si distacca in parte da quanto accaduto a Piccioni: Andrea Fanti perde la memoria dopo essere stato colpito da una pallottola sparata dal padre di un paziente deceduto nel suo reparto, si riprende credendo di essere stato appena assunto e non ricordando più la morte del figlio Mattia, il divorzio dalla moglie Agnese Tiberi (Sara Lazzaro), divenuta nel frattempo direttrice sanitaria, e la relazione con una delle sue collaboratrici, Giulia Giordano (Matilde Gioli).

 

Questo viaggio dalla realtà alla fantasia ha dovuto compiere, per volere del caso, anche un percorso di ritorno, collegandosi con l’attualità in un legame a doppio filo. Le riprese della serie tv sono state interrotte, infatti, dalle normative governative che impongono il divieto di assembramento per evitare la diffusione del Coronavirus. Così fino al 16 aprile vanno in onda i primi otto episodi, la seconda parte sarà trasmessa in autunno. Quarantena permettendo, come sa benissimo lo stesso Pierdante Piccioni che oggi è in prima linea al fianco dei positivi al Covid-19 con un’equipe operativa 24 ore in tutto il lodigiano.

Matilde Gioli e Luca Argentero

Come bisogna interpretare questa fiction in tempi di Coronavirus?

Abbiamo iniziato a lavorare un anno fa e la nostra attenzione era puntata sul raccontare un’eccellenza del nostro Paese come i nostri dottori. Nessuno si immaginava di trovarsi in una situazione come quella attuale, ma quando poi è diventata realtà, abbiamo avuto la conferma di ciò che era già sotto i nostri occhi, e cioè che siamo fortunati a vivere in Italia e non in altri posti del mondo, dove magari non si ha neanche la certezza di poter essere assistiti o curati. Da noi non solo c’è un altissimo livello di specializzazione e impegno da parte dei medici ma abbiamo anche la fortuna di avere un servizio di cura garantito a tutti. Queste sono considerazioni forse retoriche e banali fatte tempo fa che mi avevano comunque fatto riflettere e che però oggi assumono un valore diverso, meno scontato di quanto si possa pensare, considerando che il problema è diventato globale.

 

Qual è il messaggio della serie?

Un caposaldo del racconto è l’idea che, indipendentemente dal rapporto medico-paziente, padre-figlio, tra amici o anche semplici vicini di casa, la priorità è prendersi cura di se stessi e subito dopo degli altri, delle persone che abbiamo vicino. In un momento come questo deve essere una regola per tutti.

 

La fiction è la storia di una trasformazione. All’inizio il mantra di Andrea Fanti è: «Mai fidarsi dei pazienti». Chi è davvero questo dottore?

Quando lo conosciamo nella serie dà la versione peggiore di sé, fin troppo cinico, ma è il risultato delle vicende che gli hanno cambiato la vita. È solo attraverso un grande trauma che trova paradossalmente un’occasione per migliorarsi e per ritornare forse, lo scopriremo più avanti nella fiction, a quello che era in principio. La vita lo ha messo in difficoltà e questo grande sconvolgimento gli fa fare un passo indietro a livello professionale, perché è costretto a partire da capo nella sua carriera, ma a livello personale, emotivo, spirituale ed emozionale gli fa fare un enorme balzo in avanti.

 

Che ruolo ha avuto Pierdante Piccioni nel progetto?

È stato molto più che coinvolto fin dall’inizio, anche nella stesura delle sceneggiature. Io ho ricevuto il suo libro dalle sue mani durante i primissimi incontri, quando la produzione, lui e gli sceneggiatori stavano lavorando sul progetto e dovevano ancora decidere il protagonista. Nel corso della lavorazione poi è passato parecchie volte sul set a trovarci. La combinazione ha voluto che in questi giorni, in cui sarebbe stato bello stare insieme per presentare la serie, si trovi in prima linea a Lodi per fronteggiare il Coronavirus. Lui è una persona eccezionale, equilibrata, che sembra davvero aver tratto insegnamento dalla sua vicenda. Chi riesce a cogliere da una tragedia gli aspetti positivi ha sicuramente delle qualità in più. Lui parla della sua esperienza come un'occasione per essere una persona migliore. E questo è quello che abbiamo provato a rappresentare nella serie.

 

Come ti sei trovato a recitare da medico?

È un ottimo tassello da mettere nel curriculum, è un ruolo bellissimo, in cui mi sono trovato a mio agio. È stato un lavoro magnifico anche dal punto di vista tecnico. Sono felice e mi piacerebbe che fosse solo la prima stagione.

 

Ma in un'altra vita indosseresti il camice?

Assolutamente no [ride, ndr], è troppo carico di responsabilità, faccio un lavoro che forse è all’opposto, in cui le persone al massimo cambiano canale o si alzano dalla poltrona.

 

Come ti sei preparato per il set?

Tutti noi del cast abbiamo fatto a turno un training in ospedale. Anche per la regia e la scenografia l’obiettivo era di essere il più verosimili possibile al mondo dei medici, anche come segno di rispetto nei confronti del camice. Spero si noti lo sforzo fatto.

 

Quali sono stati i primi insegnamenti per “diventare” dottore?

Mi hanno fatto osservare prima di tutto la vita di reparto, perché è facile immaginare, anche per esperienze personali, come un medico si rivolge al paziente, mentre è meno consueto vedere come i medici interloquiscono tra di loro. Poi mi hanno aiutato a rendermi credibile anche nel tenere in mano una siringa o una flebo, fare una semplice auscultazione o una palpazione allo stomaco. Sono azioni basiche ma abbiamo sempre avuto dei consulenti tecnici sul set che ci guidavano passo dopo passo.

 

Come stai vivendo questi giorni di chiusura tra le mura domestiche?

Come tutti, con qualche libro da leggere e qualche film da vedere. Ho la fortuna di avere un po’ di giardino davanti casa, aprire la finestra e fare due passi. Ma credo che siamo tutti ancora all’inizio di questa faccenda, sono giornate un po’ sospese in attesa di novità.

 

Però in casa hai un segno di speranza per il futuro.

Sì, la mia compagna (l’attrice e personal trainer, Cristina Marino, ndr) è in dolce attesa di una bambina. È la parte più bella di questo momento. Siamo fiduciosi che tutto andrà bene, non abbiamo preoccupazioni se non quelle di due normalissimi genitori.

 

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