La Freccia è tornata nella cittadella Rai di Saxa Rubra per incontrare la direttrice del Tg3Giuseppina Paterniti. Ho conosciuto Giuseppina quasi 20 anni fa, quando, abbandonata la quieta dimensione della provincia, ho iniziato a lavorare nella Capitale. Professionista tosta e rigorosa, è stata una delle prime giornaliste con cui, dall’Ufficio stampa di Ferrovie dello Stato, ho intrattenuto frequenti contatti di lavoro incardinati sempre sulla massima correttezza e trasparenza e presto facilitati da una reciproca stima. Anche allora era al Tg3, nella redazione economica. Poi ci siamo persi di vista. La ritrovo oggi, affabile nei toni e nei modi quanto coriacea e rigorosa nella difesa dei principi e dei fini della professione e, nel contempo, appassionata e dinamica nel voler valorizzare le potenzialità dei nuovi strumenti di comunicazione.

 

Il giornalismo cambia, ma i fondamentali restano, sei d’accordo?
Certo, io reputo tra le cose più importanti che mi siano capitate nella vita quella di aver trascorso circa 13 anni nella redazione economica del Tg3. Perché mi ha dato la possibilità di strutturarmi mentalmente sapendo che non si può rimanere sulla superficie delle notizie. Che occorre essere rigorosi, perché spostare una virgola o un punto cambia il significato del tuo racconto. E meticolosi. Ho seguito ben 12 Leggi Finanziarie concentrata a leggere riga per riga tutti i fogli e gli emendamenti perché niente mi sfuggisse. E poi ho imparato a guardare con occhio attento i vari fenomeni sociali, il rapporto tra le istituzioni dello Stato e tra le varie componenti della società. Anche tra quelle che oggi qualcuno reputa marginali, come il mondo sindacale, ma che di fatto coinvolgono milioni di persone.

 

Poi sei stata a Bruxelles, e hai avuto modo di acquisire un diverso punto di vista.
È stata una fase di grande impegno e studio, rispetto a istituzioni e a valori in cui ho sempre creduto. Sono arrivata quando l’attività di Bruxelles stava languendo, era l’epoca della prima commissione Barroso. A risvegliarla è stata la drammatica crisi finanziaria del 2008, scoppiata oltre Atlantico e poi arrivata anche da noi, in tutta la sua virulenza. Costringendoci a prendere atto della profonda trasformazione in corso, che non riguardava solo la finanza e includeva la crisi del debito sovrano, quello della Grecia in particolare. Ecco, lì l’Europa è tornata a essere centrale, per molti punti di vista, ma è anche emersa con chiarezza la necessità di una maggiore integrazione politica senza la quale sarà impossibile che l’Unione muova concreti passi in avanti.

Cos’altro ti ha insegnato l’esperienza in Europa?

Ha confermato l’assoluta convinzione della centralità del nostro ruolo di giornalisti come presidio di democrazia, soprattutto in questa fase di evoluzione della comunicazione e del linguaggio. Quando ero a Bruxelles, il problema di riuscire a porre domande ai nostri interlocutori era serissimo. Perché c’era chi, ad esempio gli esponenti della Cina, le rifiutavano, limitandosi a rilasciare dichiarazioni. Altri no, come la cancelliera Merkel, che quando finiva un incontro, fosse stata anche notte fonda, era lì, pronta ad ascoltarci e a risponderci.

 

Insomma, l’informazione non può limitarsi a fare da megafono alle dichiarazioni dei politici, che tra l’altro ormai con i social si rivolgono direttamente al loro pubblico.
No, la stampa dovrebbe lavorare e lavora per garantire ai cittadini informazioni corrette, in modo che possano avere un controllo quanto più diretto sull’operato della politica. Abbiamo una grande tradizione su cui fare perno. Non possiamo rinunciare, con l’avvento dei social e delle varie piattaforme digitali, al nostro compito, alla mediazione giornalistica, a essere uno dei pilastri della nostra democrazia.

 

Questo implica un’evoluzione della professione, capace di adottare linguaggi e usare strumenti nuovi.
Quando sono tornata da Bruxelles, dopo otto anni, accettando il ruolo di vice direttore del Tgr, l’ho fatto, se vuoi, anche per completare la mia formazione professionale, affrontando l’informazione locale. Ma la vera sfida è stata un’altra: impegnarmi su un fronte che oggi considero fondamentale, quello del web e delle informazioni che si confrontano con i social. In quel periodo abbiamo siglato 12 accordi con il sindacato per aprire altrettante pagine social del Tgr, al momento ne sono aperte 11, abbiamo formato e qualificato giornalisti al linguaggio digitale, inaugurato profili Facebook, Twitter e Instagram, offrendo un’informazione pubblica in modalità multimediale e crossmediale. Abbiamo chiesto ai nostri giornalisti di usare lo smartphone come strumento per scattare la prima foto o filmare il primo video, di mandarlo direttamente al sito web per poi diffonderlo sulle varie piattaforme digitali.

 

La sfida oggi è questa…
È una sfida anche più ampia, più generale, quella di riqualificarci come giornalisti non solo nel linguaggio ma nella capacità di comprendere e raccontare una società complessa, plurale, multietnica, fatta di città e Paesi, che vive la grande difficoltà di comunicare, soprattutto tra vecchie e giovani generazioni. Allora il compito, della Rai in particolare, come servizio pubblico, credo sia quello di allargare il proprio orizzonte iniziando a occuparsi sempre di più dei giovani, dei loro interessi, della loro sensibilità. Noi, tanto per fare un esempio, qualche tempo fa abbiamo seguito il dialogo tra Nicola Lagioia, direttore del Salone del libro di Torino, e una rapper, nella sede della cultura italiana che è la Treccani.

 

Contaminazioni al limite del sacrilego…
Ma positive. Come giornalisti dobbiamo rifletterci e ridisegnare il nostro ambito di movimento. Quello di cui sono più soddisfatta in quest’anno passato al Tg3 (è direttrice dal novembre 2018, ndr) è che siamo riusciti a crescere in termini di audience sulle fasce più giovanili. Perché abbiamo puntato molto sulle scuole, sulle associazioni, sui movimenti, abbiamo seguito Greta e tutti i Fridays for Future fin dall’inizio. Abbiamo condiviso i nostri contenuti sui social, ottenendo ottimi riscontri anche quando abbiamo pubblicato video su Instagram sottotitolati e scelti accuratamente per quel tipo di pubblico. Anche pezzi non propriamente leggeri. Con un occhio attento alle diverse caratteristiche di ogni piattaforma, sapendo della disaffezione dei più giovani verso Facebook e Twitter.

 

E i risultati arrivano?
Certo, lo constatiamo dalle visite, dalle interazioni con la nostra redazione di media management. La stessa Greta ha interagito con i nostri profili, con due like su Twitter. Ecco, il nostro interesse, almeno come Tg3, è riuscire a raggiungere un pubblico sempre più ampio, in particolare quello che non guarda più, o quasi più, la televisione.

 

Sui social vi muovete su un terreno minato, tra fake news, haters, superficialità imperante, strategie di persuasione di massa.
È vero, il mondo dell’informazione sta attraversando un momento delicatissimo. Sappiamo come da una fake news possano nascere conseguenze durissime persino per le democrazie, è quindi estremamente importante offrire, proprio su queste piattaforme, un marchio e un’informazione qualificata e certificata che i Tg della Rai, come tanti grandi giornali, possono garantire. Serve restare centrali.

 

C’è però chi questa autorevolezza e terzietà l’ha messa in discussione, immaginando di trovare nel “libero” web un’informazione indipendente, senza un editore con i propri interessi da difendere.
Che le diverse testate abbiano un proprio orientamento è del tutto legittimo, quello che occorre sempre è raccontare e scavare bene nei fatti, cercando di andare un po’ al di là della cronaca spicciola e del commento immediato. Invece sui social i pareri vengono facilmente assimilati alle verità storiche. E rispetto a un fatto, che oggettivamente ha una sua consistenza, la contrapposizione di due o tre pareri rende relativo perfino il fatto. La nostra presenza su quelle piattaforme può fare la differenza. Perché se ci sei, come Tg Rai, qualcuno può cercarti e chiedersi: «Vediamo cosa dice la Rai».

 

C’è chi mette in discussione anche l’obiettività e terzietà dell’informazione Rai
Guarda, a volte le scelte possono essere difficili e più complesse, ma in quest’anno trascorso alla direzione del Tg3 non mi sento di dire di essere stata condizionata nelle mie decisioni. Forse si sa che sono una con cui non è facile discutere, per carattere (ride, ndr). E comunque basta esigere il rispetto dell’articolo 6 del nostro contratto nazionale, che conferisce al direttore il potere di lavorare in piena libertà e autonomia e ti difende da ingerenze esterne.

 

Qual è il tratto caratteristico del Tg3? Nel nostro mondo c’è chi per conquistare audience o lettori costruisce titoli a effetto, chi dà grande spazio alla cronaca nera o rosa, a notizie curiose, a immagini pruriginose o spiritose…

Noi la cronaca nera, se possibile, la evitiamo con grande accuratezza, non è la nostra vena. Piuttosto raccontiamo molto il sociale, cercando di cogliere le spinte verso il cambiamento, l’innovazione, le startup. Ce ne sono, e ne abbiamo parlato, nate in Italia che hanno conquistato notorietà mondiale. Ecco, raccontiamo quel che emerge di buono nella società, le storie di resistenza rispetto al crimine organizzato e alle mafie. A metà gennaio, mentre la cronaca riferiva della maxi retata contro la mafia dei Nebrodi, abbiamo mostrato l’esempio virtuoso di Troina, un paese che in quel territorio ha costruito un suo modello cooperativo per opporsi alle infiltrazioni mafiose.

 

Insomma, informazione e impegno civile.
Com’è nella tradizione del Tg3. La squadra con cui lavoro è eccezionale, fatta di colleghi capaci e impegnati. Un grande lavoro corale in cui nessuno si risparmia. Del resto, noi facciamo un giornale di servizio pubblico e compiamo scelte diverse rispetto a testate che hanno altre identità e logiche. Sono convinta che con la notizia morbosa di cronaca nera o rosa puoi ottenere un picco di visite su un sito, ma la credibilità è qualcosa che conquisti poco a poco, la formi nel telespettatore e nel lettore fornendo con continuità un certo tipo di notizie di qualità fino a diventare per loro un punto di riferimento.

 

Spesso mi chiedo se non ci sia anche un problema di qualità dei lettori, un immiserimento culturale, indotto in parte da una scuola che non forma più come una volta.
Non sono d’accordo, nel raffronto con le scuole e le università del resto d’Europa credo che l’Italia vanti un ottimo livello di preparazione dei docenti e dia una buona formazione che poi consente ai nostri giovani di emergere all’estero. È che i docenti sono chiamati spesso a sopperire ad altri vuoti sociali. Fino a qualche anno fa c’era una rete di corpi intermedi che potevano dare risposte a problemi che la famiglia, oggi più di un tempo, con genitori molto occupati o assenti, non riesce più a risolvere, demandando questo ruolo alla scuola.

 

Chi informa può anche educare?
Se c’è un problema di crisi educativa, più che nella scuola, è nell’assenza di una connessione credibile tra i corpi intermedi rimasti attivi in questo Paese, ossia di quei luoghi dove si affermano temi e valori intorno ai quali un ragazzo può spendersi e dare un senso alla propria vita. L’informazione può e deve lavorare per meglio connettere le generazioni e indurre una reale comunicazione tra loro. Ma io che guardo al mondo giovanile con grandissima attenzione, sono ottimista, sono sicura che i giovani faranno meglio di noi. Del resto i Fridays for future ne sono una testimonianza formidabile. In Germania il loro movimento ha spinto i Lander ad accelerare l’abbandono delle produzioni a carbone.

Articoli correlati