Medialogando chiude il 2020 con lo stesso ospite che lo ha inaugurato, Maurizio Molinari. A gennaio lo incontrammo come direttore della Stampa, oggi è con noi per parlarci della testata che dirige dall’aprile scorso, La Repubblica.

 

Il secondo quotidiano italiano per diffusione (ma «l’unico vero giornale nazionale, perché presente in maniera omogenea su tutto il territorio», come tiene a precisare Molinari), saldamente primo nei ranking dell’informazione online. Nel mezzo un anno drammatico, sconquassato da un’apocalisse sanitaria e sociale planetaria i cui effetti si riverberano anche sull’informazione e la comunicazione. Se in 12 mesi l’opinione di Molinari sui fondamentali del giornalismo non è cambiata, il mutato scenario e la sua attuale veste inducono nuove e interessanti riflessioni.

 

Maurizio, da gennaio a oggi il Covid-19 ha stravolto il mondo, anche quello dei media…

È vero, è come se fossimo in guerra. La pandemia è come un conflitto, con oltre 50mila morti, a oggi, soltanto in Italia. Con intere famiglie, parenti e conoscenti coinvolti, qualcosa di agghiacciante. Quando le persone vivono una situazione di questo tipo, costrette per lunghi periodi a starsene rifugiate, cosa cercano? Il cibo e l’informazione. In guerra hai bisogno di mangiare e sapere che cosa succede. Per il cibo ogni tanto esci e vai al supermercato ma l’informazione la cerchi e la trovi grazie al digitale.

 

Con un’impennata dell’informazione online.

Esatto. Il Covid-19 ha portato un imponente aumento degli abbonati digitali, all’inizio della pandemia La Repubblica ne aveva 40mila, oggi 130mila. E credo che anche gli altri giornali abbiano registrato una crescita simile, segnale di un forte trasferimento dei lettori nel mondo digitale.

 

Non accontentandosi più, però, dell’informazione gratuita offerta dal web, in un mare magnum di disintermediazione che non assicura né qualità né autorevolezza.

Sai, fino a quando tu giochi e scherzi può valere tutto, ma in guerra hai bisogno di credere a chi ti dà le informazioni. Poi sono accadute altre due cose. È cresciuta l’abitudine a informarsi online, in alternativa alla carta, da parte però di chi ancora compra la carta, non di chi l’abbandona. E anche la propensione agli acquisti sul web. Prima eravamo indietro come Paese, esitavamo a utilizzare la carta di credito, ora invece si spende di più. Noi peraltro abbiamo incentivato questo percorso, le promozioni non sono mancate.

 

In ogni caso la pandemia costituisce uno spartiacque per il giornalismo digitale nostrano, per volumi e qualità dei prodotti. Anche se la strada è lunga…

Sì, del resto sono proprio queste situazioni di difficoltà che conducono a novità e accelerazione dei processi. Noi siamo nel bel mezzo della rivoluzione digitale, e abbiamo bisogno di qualità per imporla. E La Repubblica ha tantissimi giornalisti che hanno qualità e capacità. La sfida è trasferirle sulle nuove piattaforme, con un gioco di squadra che coinvolge tutto il gruppo Gedi e vede il quotidiano come nave ammiraglia.

 

Sei alla Repubblica da quasi otto mesi, capitano di una nave che ha intrapreso una speciale rotta proprio sotto l’insegna del digitale…

L’editore mi ha dato la responsabilità di ripetere l’esperienza di quel giornalismo digitale testato alla Stampa, che mostrava di funzionare, in un’organizzazione di lavoro più grande e sofisticata. In quello che considero il laboratorio oggi più avanzato di informazione digitale nel nostro Paese. Perché La Repubblica ha un suo digital lab che nasce dalla storia del giornale: il primo a realizzare un proprio sito internet, a svilupparlo, a investirci, con una tradizione di giornalisti e tecnici specializzati affiancati ora da nuove risorse. L’intero terzo piano della nostra sede è occupato da un open space dove una trentina di ragazzi, tutti sotto i 35 anni, per la maggioranza donne, lavorano in continuazione su software digitali, provano programmi e incrociano video con registrazioni audio e infografiche per realizzare una nuova generazione di contenuti intellettuali di altissima qualità.

 

Bene, parlaci di questi prodotti di ultima generazione.

Abbiamo iniziato con i long-form, due mesi dopo il mio arrivo. Sono inchieste settimanali frutto del lavoro di un team di giornalisti che si occupano insieme di un tema specifico: come, per esempio, l’origine del Covid-19. Li pubblichiamo online il mercoledì e su carta la domenica seguente. Sul web si presentano con una scrittura integrata da vari contenuti multimediali. Sono racconti digitali la cui lettura prende diversi minuti, abbonamenti e traffico dimostrano che funzionano e sono molto graditi.

 

Siamo nel campo degli approfondimenti che rappresentano uno dei plus del giornalismo professionale. In questa forma innovativa sono capaci di catturare meglio l’attenzione del lettore.

Sì, ma l’informazione digitale tout court ha un prodotto ancora più innovativo, il video reporting. Il New York Times lo ha usato per raccontare l’uccisione di George Floyd a Minneapolis. Si tratta di video brevi nei quali si mettono assieme tutte le informazioni e i documenti utili su un singolo episodio per raccontarlo come se si fosse presenti nel momento in cui avviene. Noi lo abbiamo fatto prima con l’incidente ad Alex Zanardi, poi con l’omicidio del povero Willy, poi siamo tornati a ripeterlo sul caso Cerciello, il carabiniere ucciso a Roma. In otto-dieci minuti ti consente di fare un’esperienza davvero coinvolgente, di rivivere un episodio di cronaca come se fossi lì: con le voci, le immagini dei droni e l’infografica che analizza e illustra dettagli come, che so, la posizione della ruota dell’handbike di Zanardi durante l’impatto con il camion che lo ha investito.

E poi è arrivata una profonda rivisitazione del sito La Repubblica.

Sì, oggi è molto semplificato, pulito, di facile consultazione, sul modello del New York Times, quello che trovi sul giornale lo trovi sul sito. Ha riscosso un grande successo, abbiamo avuto un boom di contatti. Noi ogni giorno facciamo dai sei ai sette milioni di utenti unici e siamo arrivati, durante le elezioni americane, a 12 milioni. Dodici milioni in un Paese di 60 milioni di abitanti. Questo ti dà l’idea della crescita che abbiamo di fronte e del perché stiamo progressivamente adattando a questo la redazione, il lavoro, i compiti. La cosa bella è che i giornalisti di fronte a questa sfida danno il meglio di sé, perché percepiscono che è la nuova frontiera. E così fanno i tanti collaboratori esterni, circa una ventina, come Roberto Saviano, Stefano Massini o Corrado Augias.

 

Prima hai utilizzato l’espressione “rivoluzione digitale”, quindi non è un’iperbole, almeno per La Repubblica?

No, non lo è. Quel che stiamo vivendo è una sfida avveniristica ed emozionante, vista dall’interno. E il nostro interesse è che anche la concorrenza faccia altrettanto, che il mercato dell’informazione digitale si ampli come sta succedendo in Europa. Colgo l’occasione per ringraziare il sottosegretario all’editoria, Andrea Martella, che ha capito la fase in cui siamo, l’importanza dell’editoria digitale, le nuove professionalità che richiede e le opportunità di lavoro che crea. Solo l’altra settimana, qui a La Repubblica, abbiamo messo su un’unità di sette analisti di dati.

 

Insieme alle enormi potenzialità di espressione, e ci torneremo, ci sono quelle di diffusione, alle quali hai appena fatto riferimento. Le sfide, quindi, sono molteplici. Per continuare a catturare lettori e pubblici nuovi, occorre scovarli in bacini diversi da quelli tradizionali. Sei d’accordo?

È proprio questa la vera competizione, non tanto prendere i lettori del Corriere della Sera – quella è una sfida che c’è e ci sarà sempre – ma saper declinare il lavoro giornalistico alle nuove piattaforme, per andare su YouTube o TikTok e portare le persone che non hanno mai letto un giornale sui propri contenuti di qualità.

 

E come ci si riesce?

Sperimentando. Il nostro laboratorio digitale procede per test, con tentativi che, se funzionano, vengono sviluppati, altrimenti si chiudono lì. Ha funzionato quello su TikTok. Un mese fa un redattore della Repubblica ha girato alcuni video su questa piattaforma, inferiori a 60 secondi, nei quali si vede solo il suo volto mentre pronuncia tre frasi che rispondono a una domanda difficile, non so: «Come si elegge il presidente degli Stati Uniti?» o «cos’è una zona rossa?». Un interrogativo di largo interesse, con una risposta in tre frasi. In un mese ha fatto un milione e 100mila visualizzazioni.

 

Il presidente di Gedi, John Elkann, assicurando «la più alta concentrazione di investimenti nel settore» ha indicato un preciso obiettivo: costruire un diverso rapporto con i lettori. Con un’interazione e un’esperienza simile a quella offerta da società come Amazon, Spotify o Netflix. Non basta quindi la trasformazione del linguaggio e la ricerca di nuove piattaforme…

A quelle si aggiunge altro, e riguarda i canali verticali, l’iperlocal e la distribuzione. Iniziamo dai verticali: sappiamo che il tasso di crescita dell’homepage di una testata giornalistica ha un suo livello di saturazione. Allora il punto è: come crescere indipendentemente da quel livello? Il primo a dare una risposta editoriale e industriale è stato il Financial Times aprendo dei canali interni al sito destinati a settori particolari di pubblico, che crescono per conto loro. Per questo abbiamo inaugurato a settembre due verticali che stanno andando molto bene: Salute e Green&Blue, rivolti a chi ha un forte interesse per i temi della salute e a chi lo ha per l’ambiente e la sostenibilità.

 

Anche nell’editoria tradizionale quelli meno penalizzati dalla crisi generale sembrerebbero proprio i verticali, le riviste di nicchia. Si tratta di soddisfare gruppi omogenei per interessi, passioni…

E per questo noi abbiamo a disposizione anche nove redazioni locali. Cosa c’è di più verticale di un canale locale? Dobbiamo rafforzarle sul piano digitale per dialogare meglio con il pubblico della città e fare in modo che la loro informazione diventi sempre più localistica, e non guardi solo alla città, ma ai quartieri, ai condomini, insomma diventi iperlocal. Abbiamo iniziato con Roma, e da aprile a ottobre siamo passati da cinque a dieci milioni di utenti unici. Adesso stiamo ripetendo l’operazione con Bari, e proseguiremo con le altre redazioni. Quel giornalismo locale che si pensava dovesse declinare irrimediabilmente offre occasioni di lavoro e praterie sconfinate. Perché poi abbiamo 20 milioni di italiani in America, 20 milioni in Argentina, persone che desiderano avere notizie dei Paesi o dei quartieri da cui provengono.

 

Elkann ha parlato anche di distribuzione.

Ho incontrato Daniel Ek, il CEO di Spotify, e abbiamo discusso di possibili interazioni: loro hanno la musica, noi abbiamo i contenuti, si tratta di trovare un modo per metterli assieme. È una bellissima sfida, fino a questo momento la risposta non ce l’abbiamo, però bisogna tentare di far viaggiare l’informazione anche su canali diversi.

 

L’esempio di Spotify potrebbe suggerire anche l’offerta di prodotti self-made, con abbonamenti o acquisti on demand. Poi c’è Netflix…

Anche il riferimento a Netflix è molto interessante. Nei 18 mesi che hanno preceduto il mio arrivo alla Repubblica ho viaggiato molto e visitato tante redazioni: l’esperienza altrui è molto utile. Quando ho incontrato la direttrice dell’Economist e le ho chiesto quale fosse la loro sfida, il loro obiettivo, mi ha risposto: «Fare concorrenza a Netflix».

 

Che significa?

Significa che se Netflix ha successo realizzando e distribuendo film, fiction e serie di grande qualità, perché non provare a fare altrettanto sui temi di propria competenza? Un documentario su Boris Johnson come potrebbe farlo l’Economist non lo potrebbe fare nessun altro. Allora perché non immaginare di usare il nostro laboratorio digitale per creare, se non dei film, dei mini documentari o una mini fiction che raccontino grandi fatti di cronaca?

 

Intervista tratta da La Freccia di dicembre 2020