Ci incontriamo su Skype. Tutto facile, e diretto, con Mattia Feltri, che con il cambio di proprietà del Gruppo Gedi da aprile scorso è il nuovo direttore dell’Huffington Post. Il suo eloquio è sapido e intenso, cola riflessioni mai banali, e ti sorprende, ma poi neppure tanto, quando confessa di non aver mai aspirato a diventare giornalista. Sollecitato dal padre, per guadagnare qualche soldo ai tempi dell’università, ha iniziato a scrivere su Bergamo Oggi, il quotidiano della sua città. Da allora non ha più smesso: «Perché l’unica cosa che mi piaceva era mettermi lì e scrivere, e così sono andato avanti».

 

E direi che di strada ne hai fatta.

Ma anche oggi tutti gli aspetti del giornalismo che mi piacciono di più hanno a che vedere con il leggere e lo scrivere. Nessun mito di consumare le suole, o bruciante ansia per lo scoop. A me piace interrogarmi su cos’è il mondo, dove sta andando, perché si fa il cinema o la musica in un certo modo.

 

Ed è lo spirito che anima il tuo quotidiano Buongiorno dalla prima pagina della Stampa, anche oggi che sei direttore dell’Huffington Post.

Non senza qualche difficoltà, ti confesso. Perché lavorare per due quotidiani è come viaggiare tutto il giorno su due treni paralleli.

 

Complicato, ma con tante occasioni di ispirazione.

Sì, ma a ispirarmi non è sempre l’attualità. Ho un mio metodo di lavoro che in un certo senso inverte il processo.

 

Ossia?

Da qualche anno, senza sapere che mi sarebbe poi servito, tengo un mio taccuino, oggi diventato un file, dove annoto le cose che leggo, mi colpiscono e possono spostare il punto di vista su tante questioni. Non sempre il percorso è: succede qualcosa e quindi ne parlo. Ma spesso ne parlo perché ho accantonato qualcosa che ne dà un’interpretazione interessante. Ed è bello vedere come quello che è stato detto e scritto dieci, 100, 300 anni fa stia guardando noi e parlando a noi in questo momento.

 

Nihil novum sub sole, sotto mutevoli forme tornano analoghi interrogativi, conflitti e drammi. Mi ha colpito la tua riflessione, tratta da uno scritto di Albert Camus, sulla pena di morte, reclamata ancora oggi come atto di giustizia di fronte a crimini efferati.

Quel racconto viene dal libro Riflessioni sulla pena di morte. Il padre di Camus decide di assistere all’esecuzione di un uomo, ghigliottinato per aver compiuto un’orrenda strage familiare. Furibondo e indignato è convinto che fargliela pagare con la stessa moneta sia un atto di giustizia. Assiste all'esecuzione, torna e vomita. Vomitare fu l'unico suo commento.

 

Ecco, questo tuo particolare approccio nello scandagliare l’attualità penso incida anche sulle tue scelte da direttore. Ma come vivi questo nuovo capitolo professionale?

Come una duplice avventura, perché è la mia prima esperienza da direttore e lo è in una testata esclusivamente sul web, dopo 30 anni di carta stampata. E sebbene il giornalismo online lo abbia frequentato a lungo, finché non ci sei dentro non ti rendi conto di tutte le sue peculiarità. Per esempio, un titolo bello, fantasioso ed efficace sulla carta su internet non funziona, mentre magari un titolo brutto sì. Perché la gente cerca parole chiave, servono quelle. Poi l’online non ha edizioni, sulla carta stampata lavori tutto il giorno per realizzare l’indomani una gerarchia e un’armonia che sul web cerchi invece via via che impagini e pubblichi i tuoi articoli.

 

E la ottieni?

In teoria sì, perché nell’homepage una gerarchia c’è, ma i nostri articoli da home vengono visti appena da un quinto dei lettori. Così puoi avere un’apertura serissima ma poi accade che dei circa 100 pezzi pubblicati ogni giorno il numero 89 in gerarchia, più leggero, compaia su Twitter o Facebook e, per chi lo legge, avrà la stessa rilevanza degli altri. E, magari, che tu sia contestato per quell’articolo lì.

 

Contestato?

Mi è capitato, soprattutto all’inizio, con un tweet o una mail. Io andavo a cercarlo in home e non lo trovavo, era stato prodotto per i social. Non sempre la gerarchia che dai è colta da chi legge.

 

Insomma accade che guadagnino visibilità articoli che non hai neanche visto o sui quali non avresti scommesso…

E me ne rendo conto la mattina, guardando i nostri dati. Ma se un pezzo è andato meglio di quanto immaginassi è perché ha incontrato gusti che magari non hanno niente a che vedere con la mia idea dell’informazione. E va benissimo così.

 

Dici così perché online il traffico, quando arriva, è sempre ben accetto, e alimenta la pubblicità?

È realismo, perché come diceva Piero Gobetti l’azione distrugge l’utopia. Quindi preferisco non essere troppo critico. Puoi avere tante belle idee ma poi devi fare i conti con la realtà. Questo è un quotidiano che in media fa un po’ più di un milione di contatti unici al giorno, e pubblica anche molte notizie leggere che nel mio giornale ideale non ci starebbero. Ma quello, appunto, è il giornale ideale. Evito però gattini e cagnolini che abbaiano quando torna il loro padrone o vecchiette che cadono dal centesimo piano e si salvano miracolosamente. Perdiamo qualche contatto ma lo facciamo molto volentieri.

 

Del resto potete contare su un editore forte alle spalle.

E questo ci garantisce anche indipendenza. Tutte le critiche fatte quando siamo passati da Carlo De Benedetti a John Elkann le trovo particolarmente ridicole. Elkann è il mio editore da 15 anni, ho avuto una breve parentesi con De Benedetti e non mi sono nemmeno accorto della differenza. Nessuna interferenza e ampia libertà.

 

Quanto aiuta avere alle spalle un editore forte? Oggi i giornali si vendono sempre meno e la loro sostenibilità è sempre più precaria.

Certo la qualità e la libertà costano denaro. Se sei un giornale ricco puoi pretendere e conservare la tua libertà, se sei povero, con i debiti, fai molta più fatica. E dipendi molto di più dalla pubblicità e dai provvedimenti legislativi. Quindi, in generale, occorre trovare una via per uscire da questa crisi e ricominciare ad avere quella qualità e indipendenza che, anche involontariamente, passetto dopo passetto, si rischia di perdere. Però io comincio a vedere la luce da questa scrivania dove lavoro.

 

Su cosa basi questo cauto ottimismo?

Sul fatto che questa enorme tragedia del Covid-19, e da bergamasco puoi immaginare quanto mi abbia potuto toccare, ci sta facendo capire tutti gli errori che stavamo commettendo. Le città, il turismo, i trasporti, la sanità e il lavoro, così come sono stati pensati fino a oggi, non possono più funzionare. Durante il periodo di lockdown i lettori si sono buttati in massa sui siti e anche noi di Huffington, come tutti gli altri, magari spesso sbagliando, abbiamo cercato di offrire informazione vera, approfondita e di qualità. E si stanno cominciando a vedere i frutti. La qualità dei siti giornalistici è migliorata, l’informazione è molto più approfondita e corredata da audiovisivi, podcast, piccoli documentari, long read. Così oggi ci sono giornali con decine di migliaia di abbonati sui contenuti premium dei loro siti, e stanno arrivando dei soldi. Altre testate, penso al New York Times, lo facevano da anni. Il Covid-19 ci ha dato uno spintone, ci ha buttati sulla strada nuova e abbiamo capito che è percorribile.

 

La libertà costa perché non ti costringe a ricorrere a discutibili escamotage per guadagnare traffico.  Ma l’esasperata ricerca di consenso e visibilità non ti sembra sia soprattutto un costume dei tempi?

Lo è senz’altro per tanti politici che vanno sui social per farsi portabandiera dell’idea prevalente, anziché avere una propria idea del mondo, proporla e poi fare di tutto perché convinca la maggioranza. Purtroppo succede anche ai giornalisti. Come accade di scegliere l’argomento di un corsivo o un articolo in base alla tendenza su Twitter o Facebook. Qui il rischio è che il mainstream diventi più pericoloso, rinfocolare l’uno con l’altro l’idea spessissimo sbagliata del momento.

 

Un’idea frutto di superficialità.

Ma non è nemmeno superficialità, è l’immediatezza, il voler dire qualche cosa, possibilmente più forte di ciò che è stato detto un istante prima, essere dentro un mucchio che si sta muovendo in una direzione, probabilmente verso il linciaggio del giorno.

 

Complice un degrado culturale sotteso al mito dell’uno vale uno.

Più che un degrado culturale accade che sui social abbia diritto di parola anche chi non ha studiato o non ha approfondito l’argomento di cui sta parlando. E prevale questa enorme massa urlante che non sa di cosa parla. Un mondo che si fa un giudizio sempre a prima vista, leggendo un tweet, commentandolo e rilanciandolo, senza interrogarsi sulla sua veridicità.

 

Immediatezza e assenza di verifiche antitetiche al buon giornalismo. Anche se sul web arrivare primi conta.

Sì, ma può trasformarsi persino in una dittatura. Ci sono aggregatori come Apple News che se pubblicano una tua notizia fanno impennare il traffico del tuo sito. Ma perché ti riprendano devi essere tra i primi a pubblicarla.

 

E come ci si salva?

Bisogna essere rigorosi con se stessi e sapere che è meglio arrivare secondi o terzi che primi sulla bufala. Veloci di testa, distinguere bene le fonti, fare verifiche subito e poi agire di conseguenza. Abbiamo il dovere di dare le notizie più o meno in tempo reale, ma anche di approfondirle e analizzarle prendendoci tutto il tempo necessario. C’è un pezzo che io ho commissionato dieci giorni fa e arriverà tra 20 giorni. Ma dovrà essere un gran pezzo.

 

La qualità costa denaro, tempo e firme autorevoli.

I giornali che leggevo negli anni ‘70 e ‘80 erano più ricchi, potevano permettersi di andare da Pier Paolo Pasolini o da Eugenio Montale e offrire loro un milione di lire per un pezzo. Oggi no. Spesso non riesci a prendere neppure qualche bravo giornalista disoccupato con alle spalle una lunga esperienza.

 

All'Huffington Post di questo non puoi lamentarti.

No, oltre a una redazione di 18 persone posso contare su un prestigioso parterre di collaboratori. Ne cito alcuni: Gianni Riotta, Alessandro Barbano, Ugo Magri, Gianni Vernetti, Michele Valensise, Cesare Martinetti. E poi ci sono le partnership. Pubblichiamo pezzi di Luiss Open, la rivista della Luiss, dell’Università Cattolica, dell’Accademia dei Lincei.

 

Veniamo alla linea editoriale, dettata da direttore ed editore. Qual è quella dell'Huffington?

Una sola, ereditata da Lucia Annunziata che ha fondato e fatto grande questo giornale. Mettere assieme politiche e politici che magari hanno voci e idee diverse ma accomunate da un fondo di sensatezza democratica. Perché il bipolarismo oggi non è più tra destra e sinistra, ma fra chi è sensatamente democratico e chi è insensatamente, e spesso inconsapevolmente, antidemocratico, tendente ai regimi illiberali dai quali siamo circondati.

 

Alla sostanza della linea editoriale serve anche una forma che la renda efficace e attrattiva. Novità su questo fronte?

Sì, una vera riforma. Il 2 novembre il sito cambierà volto e sarà più bello da vedere ma soprattutto più evoluto e ricco tecnologicamente. Avremo un canale video, uno per i podcast e alcuni canali verticali monotematici. Uno si chiamerà Futuro e parlerà di tutte le offerte formative, soprattutto per le scuole superiori e le università in Italia e nel mondo. Ho voluto, però, preservare la gerarchia delle notizie. Oggi Huffington forse è un po’ bruttino ma l’infilata di titoli tutti a colori è di un’efficacia straordinaria. E quindi ho rinunciato a utilizzare quei sistemi che ti portano automaticamente in testa i pezzi più letti.

 

Altrimenti la gerarchia la costruiscono i paradigmi dei social.

E saremmo di nuovo punto e a capo. Invece se miri ad avere abbonati che pagano per leggerti, come per esempio La Repubblica, in procinto anche lei di rielaborare il suo sito, devi essere tu che offri tanto e bene: un giornale che ti racconta il mondo e non un contenitore in cui butti dentro tutto quello che hai.

 

Hai citato la Repubblica. Che significa essere dentro un grande gruppo multimediale?

Moltiplicare le potenzialità di ciascun media. Mai come in questo caso valgono le teorie olistiche per cui le somme sono sempre maggiori delle unità che le producono. Così uno più uno più uno non fa tre, ma può fare anche sei.

 

Intervista tratta da La Freccia di ottobre 2020