In cover, photo © Pixel Production

Fino a qualche anno fa era un magazzino nel seminterrato di un palazzo del quartiere San Lorenzo, a Roma. Un luogo inanimato e silente. Ora è vivo e pieno di volti di donne: quelli indaffarati dietro al pc delle socie di Nove Onlus e quelli coperti dal velo delle afghane raffigurate nelle foto appese ai muri. Nove Onlus è un’associazione che si occupa di cooperazione allo sviluppo, che ha stabilito la sua sede in un’ex rimessa di Rete Ferroviaria Italiana, dopo averla ottenuta in comodato d’uso gratuito e ristrutturata.

Lo stretto legame con l’Afghanistan s’intuisce appena varcata la soglia d’ingresso: al centro dei locali sono esposti un abito tradizionale e un burqa. Uno è color carta da zucchero, l’altro cobalto. Ma a settemila chilometri da Roma quei tessuti leggeri, dalle tinte pastello, coprono esistenze soffocate.

La sede di Nove Onlus a Roma © Pixel Production

«Nove è nata nel 2012, dal mio incontro in Afghanistan con altre due donne, Arianna Briganti ed Elena Noacco, che lavoravano nella cooperazione internazionale. Ora operiamo soprattutto lì e in Italia», racconta Susanna Fioretti, la presidente della onlus. «L’Afghanistan è in guerra da quasi 40 anni. E il regime dei talebani ha marginalizzato e relegato le donne in una condizione di totale subordinazione, chiudendo anche le scuole. Il tasso di alfabetizzazione femminile è del 30%, c’è un’intera generazione che non ha studiato e non lavora. La Costituzione del 2004 riconosce formalmente l’uguaglianza tra uomo e donna, ma questa rimane solo sulla carta», prosegue Fioretti.

Nel cuore dell’Asia Centrale, l’Afghanistan è tra le nazioni del mondo agli ultimi posti rispetto all’Indice di sviluppo umano – un indicatore che prende in considerazione Pil pro capite, alfabetizzazione e speranza di vita – ed è stato definito dal Times il peggior Stato per una donna. «A Kabul siamo partite aprendo un centro di formazione. Dal 2014 al 2019 abbiamo seguito 2.400 donne di cui 400 ora sono occupate. Durante il Covid- 19 ci siamo dovute fermare e sono sorti parecchi dubbi sulla possibilità di restare. Ma invece di ritirarci abbiamo deciso di rilanciare», spiega Arianna Briganti, vicepresidente di Nove.

Così è nato il progetto Women in Business Hub (Wibh): «Un polo multidisciplinare all’interno del quale le donne possono inserirsi e decidere il percorso da intraprendere. Offriamo corsi gratuiti di alfabetizzazione, inglese avanzato, informatica (coding e web design) e scuola guida. Inoltre, supportiamo chi vuole mettere in piedi un’impresa attraverso il career coaching e il business development».

Una lezione di scuola guida nel Women in Business Hub a Kabul © Pixel Production

L’hub si trova all’interno dello Shahrara Garden, che appartiene al ministero degli Affari femminili. «Nel Giardino possono accedere solo donne, quindi le famiglie di provenienza si sentono sicure e lasciano che mogli, figlie e sorelle frequentino i nostri corsi. Ogni iniziativa è plasmata in base alla cultura locale». In questa sorta di acceleratore, infatti, s'insegna a leggere e a scrivere fino ad arrivare a spiegare un business plan. Il prossimo anno verranno attivate anche le lezioni online, affinché si possa partecipare da tutte le province, persino quelle sotto il controllo dei talebani.

In Afghanistan, durante il lockdown, ha chiuso il 100% delle aziende femminili, comprese quelle che avevano sbocchi all’estero. Per questo, la onlus ha pensato anche di incoraggiare e supportare le imprenditrici con il Daring women in business, un premio di quattromila dollari. «Le application si potevano effettuare online. Ne sono arrivate da tutto il Paese. Abbiamo scoperto donne con mille risorse, capaci di utilizzare il web, i social e altre piattaforme digitali. Ne abbiamo selezionate cinque che hanno presentato il loro progetto a una giuria internazionale. Ha vinto Laila Alokozay, che produce abiti tradizionali con tecniche moderne e li esporta in Asia e negli Stati Uniti. La diaspora degli afghani è ovunque e lei ha clienti soprattutto in Pakistan e in Iran». Per il 2021 l’intenzione è di organizzare di nuovo il premio e seguire all’interno dell’hub anche le idee meritevoli che non riescono a vincere.

Tra i progetti inglobati nel Wibh c’è il Pink Shuttle: «In Afghanistan la mobilità costituisce un ulteriore problema per la popolazione femminile. Anche quella scolarizzata, spesso, non ha un posto di lavoro perché non può raggiungerlo», spiega Briganti. Le donne devono essere accompagnate da un uomo, non possono prendere da sole i mezzi e, se si spostano a piedi, rischiano di essere aggredite. Tali limitazioni costituiscono un ulteriore ostacolo per l’emancipazione. «Abbiamo pensato che un bus per donne, guidato da donne, potesse contribuire alla loro indipendenza. Così, abbiamo acquistato sette pulmini, formato le driver nella nostra scuola guida e stretto accordi con il ministero degli Affari femminili e l’università.

Il Pink Shuttle in servizio a Kabul © Pixel Production

Una videochiamata da Kabul fa entrare nella sede romana di Nove Onlus altre tre donne: Azar, Fatima e Layla. La prima è la direttrice del Women in Business Hub: «Attraverso i corsi cerchiamo di rendere le partecipanti consapevoli dei loro diritti e le aiutiamo a renderli effettivi», spiega in inglese attraverso lo schermo del cellulare. Layla è vedova, ha cinque figli e i genitori a cui badare. Manteneva la famiglia con il lavoro di spazzina comunale: «Ho iniziato a seguire un corso di inglese, poi ho frequentato la scuola di guida e sono diventata driver del Pink Shuttle. Ho preso anche una patente professionale e, grazie a questo traguardo, sono stata assunta come autista dal ministero della Difesa». Quello a cui Nove punta è l’avvio di progetti sostenibili e “generativi”: «Ciò che non riusciamo a fare noi lo porta avanti la comunità beneficiaria. Nel caso del Pink Shuttle è nato un sentimento di sorellanza e una volontà di migliorare la condizione femminile generale», commenta la vicepresidente alla fine del collegamento con Kabul.

Una driver del Pink Shuttle © Pixel Production

Tuttavia, la filosofia di Nove non è orientarsi su un’unica causa, ma «portare avanti progetti concreti in vari campi, dagli aiuti per le emergenze all’istruzione, fino allo sviluppo socio- economico. Aiutiamo le donne, ma anche i bambini, i disabili, i migranti», sostiene Fioretti. Nove ha lavorato in Siria, in Etiopia, in Grecia. E, ovviamente, in Italia, dove ha riformulato gli interventi in base alle nuove esigenze nate con il Covid-19.

 

A risentire di più della difficile situazione sono soprattutto i giovani, costretti a subire l’isolamento sociale e lo sconvolgimento del sistema scolastico. Per questo la onlus ha deciso di sostenerli con due nuovi progetti. Il primo si chiama Vitamine per le menti ed è realizzato in collaborazione con il IX Municipio di Roma. Rivolto alle scuole superiori romane e a un pubblico allargato, prevede una parte pilota che prende il via a marzo. In un periodo in cui la fruizione culturale in presenza è molto limitata, si proporranno incontri online per integrare la didattica con temi trasversali come: il rischio di essere donna, con le testimonianze di Susanna e Arianna riguardo l’esperienza in Afghanistan; il fenomeno migratorio come condizione universale, partendo dagli spunti del film La guerra di Cam della regista Laura Muscardin; l’evoluzione digitale dei linguaggi artistici spiegata dall’illustratore Lorenzo Colangeli.

Il secondo progetto, il cui avvio è previsto per il prossimo anno scolastico, coinvolgerà 25 ragazzi romani dai sei ai 14 anni con situazioni di disagio o disabilità. L'iniziativa, in collaborazione con Sport senza Frontiere, metterà al centro l’attività fisica come strumento per socializzare, collaborare, rispettare le regole, conoscere il proprio corpo e prendersene cura con un corretto stile di vita. Ma offrirà anche supporto scolastico e strumenti per la didattica a distanza (pc e tablet). In più, verrà fornito alle famiglie un sostegno alla genitorialità per seguire al meglio i figli e saranno organizzati seminari per spiegare i rischi del web per i minori, specialmente in una situazione caratterizzata da forti restrizioni della vita sociale nella quale si trascorre molto tempo in Rete.

Per la numerologia il nove, scelto come nome dell’associazione, è il numero “umano” perché legato ai mesi della gravidanza. Simboleggia la crescita, l'invenzione, il cambiamento. Un cambiamento che può partire anche da un vecchio magazzino seminterrato e abbracciare il mondo.

Articolo tratto da La Freccia