Questo numero de La Freccia, insieme ai contributi esterni di firme a voi ben conosciute e apprezzate, da Cesare Biasini Selvaggi a Valentina Lo Surdo, da Andrea Radic a Mario Tozzi, da Osvaldo Bevilacqua a Padre Enzo Fortunato, da Davide Rondoni a Peppone Calabrese, ospita quelli di tre noti giornalisti: Mario Calabresi, Enrico Franceschini e Luca Gialanella.

Il primo, presentando una serie di podcast dal titolo Testa a Testa, ci parla di opposizioni e forti rivalità tra grandi città: Milano e Roma, Lione e Parigi, Barcellona e Madrid. E di distanze, non solo fisiche, che sfumano però con l’Alta Velocità ferroviaria. Rivalità, così chiude il suo pezzo Calabresi citando Sigmund Freud, che non necessariamente significano ostilità. 

Enrico Franceschini, da 40 anni corrispondente estero di uno dei principali quotidiani nazionali, il mondo l’ha vissuto e conosciuto in lungo e in largo, incontrando tanti di quei cosiddetti grandi della terra. Raccontando a noi la sua Romagna, parla delle differenze tra i romagnoli di mare e di campagna, di pianura e di montagna e di come «la piada diminuisca di spessore a mano a mano che si percorre la Romagna da nord a sud». Differenze minime ma pregnanti insieme a similitudini altrettanto significative, perché la statale Adriatica gli ricorda le freeway della California, la sabbia delle spiagge romagnole quella di Tel Aviv e il porto canale di Cervia o Cesenatico evoca ai suoi occhi tanti porticcioli della Cornovaglia. Non siamo certo al “tutto il mondo è paese”, ma la ricchezza delle minute diversità si accompagna all’omogeneità di tanti parallelismi e ibridazioni. 

E che c’è di meglio, infine, del Giro d’Italia, giunto alla 106esima edizione, e di cui da anni scrive Luca Gialanella sul quotidiano che ne è anche l’organizzatore, per raccontarci un Paese unico e straordinario ma diversissimo sotto tanti aspetti? Differente in piccole o significative sfumature che caratterizzano un borgo dall’altro e una contrada dall’altra, per paesaggio, tradizioni, dialetto, gastronomia, artigianato. 

Suggerisco ora un bel cocktail, mescolando nello stesso mixer gli antagonismi tra città, come quelli sanguinosi di un tempo tra guelfi e ghibellini, ritualizzati e resi oggi il più possibile innocui, con le somiglianze di luoghi e situazioni distanti tra loro migliaia di chilometri, ma che molti percepiscono come originali fino a sentirsene gelosi custodi, e, infine, le mille immagini del caleidoscopico ma coeso Paese nel quale ci è data la fortuna di vivere. Quel che ne esce dovrebbe condurci a riflettere anche sul mistero di essere tutti biologicamente simili, eppure diversissimi l’uno dall’altro, e non solo esteticamente. Geni e santi appartengono alla stessa specie di mediocri e stupratori. Luoghi e persone sono concrezioni dinamiche di incroci di vite e culture multiformi. E tutto questo potrebbe portarci a riflettere anche sul senso del viaggio nel suo significato più profondo, per «imparare a vivere come gli ospiti della vita l’uno dell’altro», come scrive George Steiner. Lui lo fa interrogandosi sul senso profondo del giudaismo «come vocazione alla vita errante e all’insegnamento dell’ospitalità fra gli uomini». Anche perché se accettassimo che «siamo tutti visitatori della vita» forse un giorno finiremmo di massacrarci «per un fazzoletto di terra, sotto pezze di colori diversi issate a mo’ di bandiere». Anche per questo viaggiare conta, per comprendere, accettare e valorizzare la diversità e ricordarsi, con Terenzio, che nihil alienum, niente di umano ci è alieno.