In cover, Tanzania, Lago Tanganika (2016) I pescatori si dedicano alle loro attività dall’alba al tramonto al largo della costa di Kayonga, un villaggio a sud di Kigoma

C’è una lunga tradizione di servizio tra le fila delle forze armate nella famiglia di Michael Christopher Brown. Quindi per lui, sin da bambino, è sempre stata naturale una certa fascinazione per la guerra. E un interesse generale verso la presenza militare americana all’estero, sebbene non esagerato. Non cresce infatti in un ambiente particolarmente politicizzato, ma nella Skagit Valley, una comunità di agricoltori nello Stato di Washington. Classe 1978, la sua adolescenza e formazione scorrono in una sorta di confort zone, in mezzo alla bellezza della natura, nello studio. Così, a un certo punto, decide di sperimentare l’opposto, di conoscere il volto oscuro dell’uomo e del mondo, di rischiare la pelle per trovarsi sempre a un passo dalla notizia.

 

Il resto – mai come in questa circostanza è il caso di dirlo – è storia. E anche se Brown non ha mai aspirato a vedere il proprio lavoro in un museo, i suoi reportage, di guerra ma non solo, fino al prossimo 30 aprile superano lo spazio dove tradizionalmente vive la notizia per sbarcare a Catania, nelle sale della Galleria d’arte moderna Le Ciminiere. È la sua prima retrospettiva europea, prodotta dalla Fondazione Oelle Mediterraneo antico.

 

Brown è un innovatore del linguaggio del fotoreportage, anche per gli aspetti tecnici legati al mezzo di ripresa. «Prima di lui nessun fotoreporter professionista aveva mai pensato di utilizzare l’iPhone per documentare un conflitto. La vicinanza al soggetto offerta dallo smartphone gli è servita per instaurare un legame con le persone inquadrate e per realizzare scatti altrimenti impossibili», spiega Ezio Costanzo, storico della fotografia e curatore della mostra.

 

«Negli ospedali libici, per esempio, dove i fotografi non erano autorizzati a entrare, lui riesce a catturare immagini che altri colleghi con le loro apparecchiature ingombranti non hanno potuto cogliere. Il fatto che sia stato assunto dalla Magnum con un portfolio pieno zeppo di fotografie scattate con l’iPhone ha scombinato l’intero mondo del fotogiornalismo, segnando anche l’inizio di una nuova era. E ha sancito il fatto che, dietro a ogni istantanea, c’è sempre colui che in quel momento decide di premere l’otturatore. Non è lo strumento che conta, ma ciò che si è capaci di osservare e catturare», prosegue.

 

Intanto mi guardo attorno, circondato da oltre 250 fotografie con la narrazione della rivoluzione libica, con gli scatti espliciti, brutali, inclementi, di corpi senza vita o del viso dell'ex presidente Muammar Gheddafi pestato a sangue. Poi ci sono i reportage davvero sorprendenti eseguiti in Congo, Afghanistan, Messico, a Cuba, nelle metropolitane di Pechino e nella remota isola russa di Sakhalin. Lavori in cui la tensione introspettiva della narrazione si fonde con gli aspetti compositivi delle immagini. E ciò che ne viene fuori è sorprendente, oltre che fotograficamente straordinario.

 

«Brown racchiude in sé il coraggio di Robert Capa e la rigorosa maestria compositiva di Henri Cartier-Bresson. Qualità che non richiedono apparecchiature fotografiche costose e multifunzionali. Come Capa e Bresson ci hanno insegnato, occorre solo essere sempre vicino al soggetto fotografato e, nel momento dello scatto, riuscire ad allineare mente, occhio e cuore. Ed è quello che Brown riesce a fare come pochi altri», aggiunge Costanzo mentre mi presenta Michael Christopher, giunto a Catania per l’inaugurazione della mostra e per il suo primo fotoreportage in Sicilia, nell’ambito di una residenza artistica insieme al sound artist Michele Spadaro. Ho poco tempo per intervistarlo e la prima domanda mi scivola spontanea.

 

Ti capita di avere paura mentre fai il tuo lavoro?

Attualmente non vado molto in zone di guerra, ma lì ho sempre avuto timore. Credo sia normale, in fin dei conti le nostre stesse vite sono fuori dal nostro controllo. Anche se ti sembra di poter tenere d’occhio tutto, qualcosa accade all’improvviso contro ogni previsione. Ho realizzato un servizio in Congo all’inizio di quest’anno, scalando un vulcano e trascorrendo una bellissima serata sulla cima. Qualche giorno dopo, l’ambasciatore italiano Luca Attanasio e un carabiniere della sua scorta, Vittorio Iacovacci, sono stati uccisi in un attacco nei pressi della cittadina di Kanyamahoro, nel Nord Kivu, non molto lontano da dove mi trovavo.

 

Oggi le fotografie sono in Rete già pochi minuti dopo lo scatto, come sai bene anche tu che utilizzi instagram. Cosa ti interessa seguire sui social?

Una volta il pittore fotorealista Chuck Close, in un’intervista per la serie televisiva della BBC The Genius of Photography, disse che la fotografia è l’unica forma d’arte in cui puoi inciampare in accidentali capolavori. Puoi programmare ogni dettaglio dell’inquadratura, ma non la folla delle persone che stai fotografando. C’è qualcosa di molto speciale in questo, che in piattaforme come instagram trova la sua massima espressione. Seguo per esempio Syriandeveloper, un giovane che pubblica tutti i giorni ogni genere di immagine dalla Siria, e People of Wallmart, gli scatti dai supermercati Wallmart, una straordinaria sintesi distopica dell’America contemporanea.

Articolo tratto da La Freccia

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