In cover, Arnaldo Pomodoro, Disco in forma di rosa del deserto (1993-94)

Parte tutto dallo sguardo per Maria Lai. Occhi che attingono alla tradizione della propria terra sarda, comprendono antiche leggende, riflettono la natura primordiale delle stupende montagne che minacciano ed esaltano la natia Ulassai, nell'Ogliastra. E prosegue con quella creatività che si rivela quotidianamente al femminile nel gioco di intrecci di fili e ricordi, tra telai e tele cucite, fate (le janas dei racconti popolari) e caprette applicate su libri di stoffa con spartiti musicali e fiabe magiche. Questi pensieri mi fanno compagnia mentre osservo il suo Senza titolo (serie telai) del 2010, ospitato nella Sala delle Logge.

 

Nella prima Sala di rappresentanza, invece, i miei occhi vengono subito abbagliati dai riflessi argentei dell’imponente Concetto spaziale: la Luna a Venezia (1961) di Lucio Fontana. La superficie è il campo privilegiato d’azione dei suoi gesti, che lasciano il segno e contestualmente esprimono il concetto stesso di spazio: “di qua” dove siamo noi, “di là” dove diviene indeterminato e, per questo, infinito. Nel 1958 esegue i Tagli, netti, primi di una lunga serie intitolata Attese (di un accadimento necessariamente da compiersi) che, come un colpo di rasoio, lacerano l’opera singolarmente o in modalità reiterata, nel caso che ho davanti agli occhi.

Piero Guccione, Cielo giallo (2011-2014)

Piero Guccione, Cielo giallo (2011-2014)

Poi si passa alla Galleria dei Busti. «L’arte è stato d’animo angelico, geometrico. Essa si rivolge all’intelletto e non ai sensi. Non la modellazione ha importanza, ma la modulazione». Mi vengono in mente queste parole di Fausto Melotti quando mi imbatto nel suo Contrappunto XII del 1975, dalle forme tridimensionali e, anche in questo caso, anti-scultoree e anti-monumentali, tra elementi come asticelle d’ottone e garze che rivelano il suo atteggiamento anaffettivo verso la materia. Materia a cui Melotti ricorre lo stretto indispensabile per modulare le sue opere con note musicali visive, secondo i principi dell’armonia e del contrappunto di Johann Sebastian Bach. La formazione e la passione musicale, infatti, si affianca a quella artistica e tecnico-scientifica (nel 1924 si era laureato in ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Milano), contribuendo a restituire strutture geometriche quanto fantasiosamente ritmiche in un valzer di contrapposizioni tra pieni e vuoti, luci e ombre, epifanie e sparizioni che ora danza di fronte a me.

 

Il Cielo giallo (2011-2014) di Piero Guccione, invece, con la sua proverbiale luce dorata e azzurra illumina d’immenso – è proprio il caso di dirlo – il belvedere inferiore del Torrino. «Sono un uomo che ha bisogno di guardare il mare, con la memoria, guardarlo avendolo lì a un passo, come lo avevo certamente guardato da bambino», confidava nel 1983 il grande artista siciliano a Giorgio Soavi. Pochi autori hanno saputo restituire come lui la dimensione pittorica della luce e l’interazione tra il cielo e il mare. Che poi è niente di più di quel tratto di costa lungo la spiaggia inarcata di Sampieri, nel ragusano, davanti al Mediterraneo. È questa la grande impresa che quotidianamente Guccione ha affrontato: catturare anche solo per un istante, nel tentativo di renderla eterna, quell’impercettibile linea di confine che divide il cielo e il mare, il noto e l’ignoto, l’intellegibile e l’imperscrutabile.

Luciano Ventrone, Coerenza geometrica (2017)

Luciano Ventrone, Coerenza geometrica (2017)

Nella Sala della Pendola, un nuovo, sorprendente dipinto: Coerenza geometrica, del 2017. Si tratta di un cesto colmo di ciliegie, più vere del vero, di cui sarei tentato di afferrarne almeno una. E il mio ricordo corre al suo autore, Luciano Ventrone, che ci ha lasciati lo scorso aprile. Mi sembra di vederlo nel suo studio di Collelongo, in provincia dell’Aquila, con gli occhiali arroccati sul naso, la luce puntata sulla tela di lino mentre le mani si muovono sicure e veloci impugnando il pennello usato come un bisturi. E, fino a pochi anni orsono, sotto lo sguardo sonnacchioso della sua Micia. È stata la passione per il suo lavoro a riempirgli la vita. La consapevolezza di saperci davvero fare con pennello e colori per andare oltre la realtà e le sue apparenze. Tanto da definirsi un “pittore astratto”.

 

Nella Sala degli Arazzi di Lille, incontro un’altra opera di un artista-amico: conTatto (2017) di Michelangelo Pistoletto che, dall’alto dei suoi 87 anni, è riuscito anche a battere il Covid-19 dopo un lungo ricovero. In questo lavoro ritrovo, attraverso l’impiego dello specchio, la dimensione del tempo, non soltanto rappresentato ma realmente presente; l’inclusione nell’opera di me spettatore e dell’ambiente circostante che ne fanno l’autoritratto del mondo; la congiunzione di coppie di opposte polarità (statico/dinamico, superficie/profondità). Ma c’è qualcosa di più. Adagiato su un’antica consolle, con il suo gioco di quadri specchianti conTatto riproduce gli indici di due mani diverse che si toccano, con esplicito riferimento alla Creazione di Adamo di Michelangelo, tra tutti i capolavori della Cappella Sistina senz’altro uno dei più famosi. 

Michelangelo Pistoletto, conTatto (2017)

Michelangelo Pistoletto, conTatto (2017)

Il grande artista di Biella sembra volerci ricordare che l’altro, il nostro prossimo, è lì, ma la decisione di cercarlo dipende da noi. Se vogliamo stendere il dito lo toccheremo, ma se non vogliamo possiamo passare anche tutta la vita senza cercarlo. È interessante e, aggiungo, significativo che proprio quest’opera di Pistoletto, questa sua esortazione alla dimensione comunitaria dell’esistenza, occupi la sala che ospita le riunioni del Consiglio supremo di difesa. Sì, perché ancora non vi ho svelato il luogo di questa mia visita. Non è un museo né una mostra d’arte o una collezione privata. Siamo sul Colle più alto delle istituzioni italiane, nella casa di noi tutti ovvero al Quirinale o, meglio, al Quirinale contemporaneo.

 

Il suo significato viene spiegato dallo stesso presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella prefazione del catalogo edito da Treccani: «Per dirsi a pieno titolo Casa degli italiani, il Palazzo necessitava, dunque, di un adeguamento, quale quello realizzato con il progetto Quirinale contemporaneo nelle sue tre edizioni del 2019, 2020, 2021. Un progetto volto ad aggiornare l’immagine delle sedi istituzionali tramite l’inserimento di rilevanti espressioni del genio e dell’estro degli artisti italiani, dalla nascita della Repubblica ai nostri giorni: opere d’arte e oggetti di design che aggiungono un’importante testimonianza pubblica dell’eccellenza italiana in questo settore, mai affievolita».

Emilio Vedova, Per la Spagna I e II (1962)

Emilio Vedova, Per la Spagna I e II (1962)

Quell’eccellenza contemporanea, quell’italian factor, cioè quel misto di intelligenza, creatività, gusto, capacità tecniche e artigiane stratificate in secoli e millenni, attraverso le opere di grandi artisti e designer tra il XX e XXI secolo, sono entrati in maniera armoniosa (operazione non semplice) tra arredi, decori del periodo papale e sabaudi. Da Carla Accardi a Gae Aulenti e Piero Castiglioni, da Marino Marini a Gio Ponti, da Alberto Burri a Enzo Mari, da Grazia Varisco a Roberto Lazzeroni, oltre 200 lavori e capolavori del contemporaneo tra arti visive e design abitano oggi il Palazzo del Quirinale e, in misura minore, la Tenuta presidenziale di Castelporziano (RM) e, simbolicamente, Villa Rosebery a Napoli.

 

Grazie al lavoro degli uffici della Presidenza della Repubblica, sotto l’attenta guida del segretario generale Ugo Zampetti e con la curatela dell’architetto Renata Cristina Mazzantini, è stata realizzata questa straordinaria quanto innovativa operazione culturale che produce benessere per tutti i dipendenti e gli ospiti del Palazzo, ma anche conoscenza, valorizzando la vera vocazione italiana: l’innovazione permanente attraverso la formalizzazione dell’intangibile, l’evoluzione dell’immaginario intelligente, il potere della fantasia colta, che affondano le loro radici nell’unità rinascimentale delle arti e nella conciliazione tra cultura tecnica e umanistica. Viene, allora, da concludere con le parole del drammaturgo tedesco Bertolt Brecht: «Le arti servono a quella più grande, la vita». Compresa quella delle istituzioni, aggiungo io.

Articolo tratto da La Freccia

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