In cover, una veduta del centro storico di Genova © Roberto Lo Savio/Adobestock

Chissà se insieme a Claudio Orazi, sovrintendente del Teatro Carlo Felice di Genova, siamo seduti proprio su quel palco dove, l’8 aprile 1828, il re omonimo gustò in forma privata e solitaria la seconda replica dell’opera Bianca e Fernando, di Vincenzo Bellini. «Il successo fu grande», commenta il maestro, «anche se Genova non vive solo dei suoi altissimi trascorsi, ma sa proiettarne l’esperienza in una dimensione viva e attuale. Per esempio, il 29 settembre del 2020 ho voluto aprire la stagione teatrale con Il Trespolo tutore di Alessandro Stradella, opera comica del 1679, tra le prime nella storia musicale italiana. E in quell’occasione il pubblico mostrò una partecipazione emotiva sorprendente».

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Il Teatro Carlo Felice © otobeam.de/Adobestock

A tre secoli e mezzo di distanza, racconta ancora, «anziché vivere quel capolavoro come una specie di oggetto museale degno di astratta contemplazione, gli spettatori ne apprezzarono i contenuti tanto da aderirvi pienamente, come se in scena ci fossero i loro antenati redivivi». A ridosso di quella prima genovese Orazi decise di ripercorrere, insieme al direttore d’orchestra Fabrizio Callai, un itinerario stradelliano che ebbe inizio dalla fine.

Da quella piazza Banchi nel centro storico di Genova, dove il compositore seicentesco venne pugnalato a morte da un sicario, assoldato per lavare l’onta di una tresca proibita con la nobildonna Maria Caterina Lomellini. Quella passeggiata non fu soltanto l’occasione per presentare una messa in scena straordinaria ma soprattutto per sottolineare il radicamento di una grande civiltà musicale tra vicoli e piazze storiche, dove chi non è genovese smarrisce il proprio cuore fino a lasciarlo.

Chi invece dalla città fu adottato – come nel caso del poeta Giorgio Caproni – così l’avrebbe ringraziata: «La mia città dagli amori in salita, / Genova mia di mare tutta scale / e, su dal porto, risucchi di vita / viva fino a raggiungere il crinale / di lamiera dei tetti, ora col quale / spinta nel petto, qui dove è finita / in piombo la parola, iodio e sale / riviera sulla punta delle dita».

Vicoli di Genova © Luca/Adobestock

Dalla stazione principale, invece, vi occorre un quarto d’ora a piedi per raggiungere piazza dell’Amor Perfetto, dove fu provato e mai consumato un sentimento struggente. Lei si chiamava Tommasina, giovane di nobili ascendenze che, appena ventenne, era andata in sposa al marchese Giovanni Battista Spinola. Era una donna di fine cultura e bellezza abbagliante. Racconta Jean d’Auton, storiografo di Luigi XII, che a fine agosto del 1502 a Villa Cattaneo si tenne un ricevimento in onore del sovrano francese e, sotto un pergolato non lontano dal ninfeo, al risuonare del Vespro Lucis Creator optime di Antonius Janue, Tommasina e il Père du peuple si conobbero.

Avvenne qualcosa di più di un inchino e un fulmine indusse la giovane a esporsi nella sola maniera concepibile. Luigi, infatti, era unito in seconde nozze ad Anna di Bretagna e Tommasina gli propose un intendyo, termine genovese che stava a descrivere una relazione di amor cortese. A quella confessione di donna virtuosa e innamorata, il sovrano rispose: «Oui». Ella lo elesse come suo amante platonico e lo nominò signore del suo cuore e dei suoi pensieri.

Si narra che, sette mesi dopo, a Tommasina giunse notizia della morte del re. In verità si era soltanto ammalato ma all’epoca le precisazioni e le smentite tardavano a giungere. Naufragato il sentimento in cui era immersa, la donna lasciò che la disperazione la uccidesse. In sua memoria restano un epitaffio di Luigi e, nella chiesa di Santa Maria di Castello (oggi museo omonimo), la tela del Paradiso di Ludovico Brea, dove la fanciulla morta d’amore è ritratta.

 

Ora spostatevi di 500 metri e 500 anni, in vico dei Castagna. Al civico 4 risentirete le note di una celebre canzone, poi l’eco della leggenda secondo cui essa fu dedicata a un’attrice, infine il mormorio di una verità non meno romantica. Quella secondo cui Gino Paoli aveva scritto Il cielo in una stanza per nostalgia del Castagna, bordello preferito da studenti e poeti della Genova di fine anni ‘50. A chiusura avvenuta, seguirà il nostalgico verso di Paoli: «Questo soffitto viola no, non esiste più, io vedo il cielo sopra noi». L’amore come pura immaginazione.

«È la lotta del pubblico genovese contro i cliché del consumo, il riserbo di questi cittadini per le loro emozioni e la libertà che ciascuno sa difendere grazie a quel senso di apertura che il mare gli regala», riprende Orazi, che lancia un invito: «Il 25 marzo è prevista la prima di Manon Lescaut, con una direzione, una regia e degli interpreti fantastici. Insieme a Pierangelo Conte, il nostro direttore artistico, abbiamo pensato a una delle opere più ardimentose di Giacomo Puccini, ispirata al libro di Antoine François Prévost, un romanziere di coraggio. Venga, l’aspetto!». Ci sarò maestro Orazi, grazie.

E anche voi lettori, venite a Genova per la storia di Manon Lescaut e il chevalier des Grieux. Regalatevi un altro amore che possa meravigliarvi e due anime che riprendano a vivere sino a morirne, perché a Genova il cuore batte di paradossi e contrasti, cerca l’ombra dinanzi alla marina e sta a occhi socchiusi nell’attesa che una frase faccia buio. «Fondere assieme i contrari: intensità e chiarezza, spontaneità e rigore... Non è la poesia un equilibrio di resistenze?». Angelo Barile, poeta e ligure, senza fine.

Articolo tratto da La Freccia

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