Sono un grande appassionato di musica italiana e quando viaggio cerco sempre di soddisfare le mie curiosità. Per una puntata di Linea Verde mi affidano il racconto dell’aceto balsamico in zona Carpi, nel Modenese. Mi ritrovo vicino a Correggio (RE) e mi metto sulle tracce di Ligabue e in particolare di Mario che «dà un colpo di straccio al banco del bar». Per entrare nel Bar Mario, però, bisogna fare circa sei chilometri, tutta pianura. 

Basterebbe una bicicletta normale ma ne affitto una a pedalata assistita. Monto in sella ma è troppo alta per me, devo regolare l’altezza del sellino. Sbrigate le pratiche tecniche mi avvio alla volta di San Martino in Rio (RE). La pianura ha il suo fascino che si perde nella notte dei tempi, per la sua secolare vocazione alla programmazione agricola. Mi colpisce il mutare delle nuance del verde negli steli delle piantagioni e la morbidezza con la quale si lasciano accarezzare da un impercettibile alito di vento: sembra che danzino. 

Mi fermo, mi tuffo tra quelle che immagino siano onde, cammino per cento metri e poi duecento. Ho le scarpe bagnate ma sono euforico, mi sembra di essere tornato bambino. Risalgo in sella e arrivo a San Martino in Rio, con la piazza, gli edifici ben curati e il castello. Ma la prima domanda è: dov’è il bar di Mario? La giornata è luminosa, mi guardo intorno, il sole riscalda le sedie davanti a un bar: è proprio quello e c’è solo una ragazza seduta fuori.

Mi siedo al tavolo di fianco al suo. Sta facendo colazione con cappuccino ed erbazzone, una torta salata composta da un fondo di pasta ripieno di bietole, spinaci, uovo, scalogna, aglio e tanto tanto parmigiano reggiano. Mene offre una fetta, accetto volentieri e le chiedo informazioni su Mario che apprendo, purtroppo, non esserci più. C’è una frase bellissima di Vinicio Capossela che recita: «Il bar non porta i ricordi ma i ricordi portano inevitabilmente al bar». Ed è quello che è successo a San Martino in Rio, dove gli amici di Mario continuano a vedersi e a condividere momenti della giornata evidentemente anche in suo ricordo. 

Modateca Deanna

Foto di Stefania Iemmi

Curioso, chiedo alla ragazza se vive lì e di cosa si occupa. Prima della risposta percepisco un’energia positiva eleggo nei suoi occhi una luce non comune. Mi racconta che è la responsabile di un archivio storico di moda, un centro di documentazione internazionale aperto agli stilisti provenienti da tutte le parti del mondo per la creazione delle loro collezioni future, e mi dice anche che dirige il primo master in Italia aperto ai laureati per progettare maglieria. Conosco la tradizione del settore in questi luoghi – si dice che una volta le passeggiate nella zona fossero accompagnate dal romantico tic toc dei macchinari in funzione – ma non sapevo ci fosse un archivio storico. Le chiedo dove ha recuperato i capi perla sua raccolta e Sonia, così si chiama, mi racconta che l’archivio è frutto della collezione della mamma Deanna

La storia della signora è di quelle che fanno tremare i polsi, una vicenda davvero bella, un sogno che si avvera. Il destino tesse sempre intrecci di cui noi siamo ignari ma l’essenziale è esser pronti ad accettare le sfide, per quanto impossibili possano sembrare. Ebbene, il destino ha voluto che Deanna fosse ripagata del suo essere altruista e dignitosa. La sua è la storia di chi ha avuto il coraggio di rischiare, di cambiare vita, di nutrire i desideri ma soprattutto di chi ha perseverato nell’avere fede in un sogno. Deanna era molto giovane, ma la più grande della famiglia, quando nel 1958, orfana di padre, insieme al fratello Erio – l’altro, Pierluigi, era troppo piccolo – decise di aiutare la mamma a portare avanti la loro pompa di benzina. Anche se aveva un’incontenibile passione, la maglieria, che coltivava in un garage. 

Sonia si ferma nel racconto, mi chiede scusa ma si deve alzare per salutare una persona che mi confida essere una collaboratrice della madre per i lavori di maglieria. Ordina due torte di riso dicendo che devo assolutamente assaggiarne una altrimenti il mio viaggio non avrà lo stesso sapore e continua il suo racconto. Un sabato italiano all'ora di pranzo –continua poi a spiegare – in una città silenziosa con tutti i negozi chiusi, si fermò una macchina talmente lussuosa che la giovanissima Deanna non ne aveva mai vista una simile prima. Lo stupore fu grande, scesero dalla macchina l’autista, due uomini elegantissimi e un traduttore che chiese consigli su dove trovare un meccanico in zona. La ragazza si mise a disposizione e contattò un'officina ma purtroppo per quella vettura non c’erano pezzi di ricambio facilmente reperibili e serviva tempo per ripararla. I due signori, però, avevano fretta di arrivare a Milano e Deanna offrì loro un passaggio con la sua Topolino fino alla stazione ferroviaria di Reggio Emilia. I due provarono a sdebitarsi con una lauta mancia ma lei, fieramente dignitosa, rifiutò, anche se si trattava di una bella somma che le avrebbe fatto comodo.

Modateca Deanna

Foto di Stefania Iemmi

Dopo circa due mesi si rivide quella grande macchinona alla pompa di benzina. Era il turno di Erio: chiesero di Miss Deanna che, nel frattempo, era nel garage a smacchinare i prototipi delle sue maglie. Le portarono una scatola di cioccolatini per ringraziarla della gentilezza e lei offrì il caffè a tutti. Con il tramite del traduttore, le posero domande molto tecniche sul suo lavoro e lei capì che non si trattava di semplici turisti ma di addetti ai lavori. Uno di questi era un membro della famiglia Harrods, l’altro il discendente di una facoltosa famiglia olandese, entrambi proprietari di grandi magazzini. Erano in zona per fare acquisti, guardarono i campioni che la ragazza stava preparando e le fecero subito il primo ordine. 

Dopo l’euforia iniziale, però, arrivarono le prime preoccupazioni: il laboratorio troppo piccolo, i pochi soldi e le forze umane centellinate. A questo punto intervenne la famiglia, e precisamente suo marito Vando, che chiese un prestito in banca per aiutare a comprare le materie prime. Da quel giorno si lavorò incessantemente, momenti di gioia ma anche disconforto. Alla fine, però, la consegna venne rispettata, fu un grande successo e iniziò una collaborazione che durerà moltissimi anni. Da lì in poi Deanna strinse tanti altri affari con importanti stilisti ma sempre con un occhio di riguardo ai giovani che le trasferivano energie e idee per continuare a creare. 

Nel 1971, il destino si affacciò un’altra volta alla finestra della signora e la trovò aperta perché lei era sempre pronta ad accoglierlo. Un tale Kenzo Takada, giovane designer giapponese che lavorava in un’azienda partner di Deanna, decise di produrre una linea tutta sua e le chiese aiuto. La proposta sembrava allettante e spaventosa allo stesso tempo ma l’avveniristica Miss Deanna pronunciò il secondo sì più importante della sua carriera. Tra i due si creò subito un legame profondo: erano dello stesso anno di nascita, avevano la stessa fame di crescere, c’era empatia. Iniziarono a progettare insieme, uno disegnava l’altra creava. Non avevano le attrezzature per produrre il tipo di fantasia che volevano, allora si misero a studiare un sistema e lo realizzarono da soli. Finalmente potevano cominciare a produrre le maglie e il successo fu immediato.

Nel 2002, come accade in molte famiglie, alcuni avvenimenti stravolsero dinamiche ormai consolidate, la voglia di continuare a lavorare cedette il passo a sentimenti difficili da gestire e così la maglieria venne venduta a un cliente storico che ne garantì la continuità. Deanna, però, volle mantenere viva la sua storia e decise di non vendere l’archivio. Il passato dell’azienda restò in capo alla famiglia. Sonia tira un sospiro di sollievo, si ferma, mi guarda, sembra svuotata. Beve un sorso d’acqua e mi dice: «Io ero a New York e pochi mesi dopo la vendita mi chiamò mio padre chiedendomi aiuto nella gestione dell’azienda. Che potevo fare? Feci le valigie e tornai in Italia». Sembra avere la stessa tempra, passione e visione della madre. In prima istanza sistema gli spazi per l’archivio che, seguendo il volere della mamma, deve essere sempre a disposizione dei giovani. 

Ma non si accontenta e vuole continuare l’opera che ha segnato la storia della maglieria italiana: la sua idea è creare una scuola di designer e arrivare a realizzare un prodotto di ricerca, sostenibile, innovativo, bello. Un progetto che gratifica tutta la filiera, insomma, dal filo al prototipo, con macchinari d’avanguardia, un gusto e uno stile tutto italiano, in modo da riportare l’attenzione sul mondo della maglieria che nel frattempo è entrato in crisi per la politica dei prezzi a ribasso con una qualità discutibile. 

Sonia mi chiede di seguirla in azienda e io sono molto emozionato all’idea di entrare nel più importante archivio storico del mondo per quanto riguardala maglieria. Ci sono stilisti che si aggirano tra le infinite corsie alla ricerca del dettaglio o della “mano giusta” del filato, li vedi toccare con rispetto e reverenza i capi, forse alla ricerca di ispirazione per le loro nuove collezioni. Attendono tutti di essere folgorati da abiti sobri o pieni di paillette luccicanti che abitano questa vera e propria galleria d’arte. Esco nel cortile e vedo ragazzi di varie nazionalità salutare Sonia come una di famiglia e capisco quanto quel luogo e quegli studenti siano legati alla storia della sua azienda. La saluto promettendole che ci rivedremo da Mario, prima o poi.