In cover, i partigiani e le partigiane a Reggio Emilia liberata (22 aprile 1945) © Archivio Teresa Vergalli

«Sapete cosa vuol dire vivere senza la libertà? La libertà di leggere un libro che ti piace, di esprimere la tua opinione, di spostarti da una città all’altra, di avanzare diritti nei confronti dei padroni su trattamento e paga al lavoro. O senza la libertà di andare a scuola, un traguardo privilegiato che ai miei tempi era riservato a pochi? Ecco, il 25 aprile è il simbolo di queste piccole e grandi conquiste ed emancipazioni».

 

Teresa Vergalli, classe 1927, staffetta partigiana durante la Resistenza, li chiama ancora così: i padroni. Tradendo la consapevolezza antica di chi, già da giovanissima, si sentiva nata dalla parte sbagliata della storia, quella vissuta dai contadini della Val d’Enza, in Emilia-Romagna, una comunità fatta di miseria in cui l’unico sostentamento era il proprio raccolto. «Allora c’erano i padroni e i poveri. Le donne invece, come diceva mia madre, contavano meno dei gatti», racconta.

 

Parlare con una testimone diretta di quegli anni significa toccare con mano episodi del passato che di solito si leggono sui manuali di scuola, arricchiti da dettagli privati che hanno contribuito a costruire la storia. Dopo l’8 settembre 1943, data che sugella l’armistizio tra l’Italia e gli Alleati, segue un periodo durissimo per il nostro Paese che ebbe l’illusione di una pace immediata ma poi fu costretto a organizzarsi nella lotta partigiana per uscire dall’oppressione fascista. E Teresa se li ricorda bene quegli stenti.

Teresa Vergalli oggi

Osservandola, dall’alto dei suoi 94 anni, si capisce subito che lei ha e ha avuto la stoffa per essere una delle protagoniste di quel pezzo di biografia italiana, della Liberazione ma anche dell’emancipazione femminile. Ancora oggi il suo viso asciutto, evidenziato da un filo di rossetto rosso, esprime determinazione. Rosso è anche lo smalto sulle unghie, il maglioncino di lana che indossa e il suo colore preferito. I racconti procedono come istantanee, affondano indietro negli anni e appaiono come lampi, sorretti da foto in bianco e nero custodite in una scatola e in una pennetta USB.

 

Ne prende in mano una in cui è ritratta insieme alle sue amiche di studi e si scioglie in un fiume di parole: «Un giorno, all’improvviso, mi hanno detto che non potevo più andare a scuola. C’erano i bombardamenti, io frequentavo il secondo anno dell’istituto magistrale e, da un momento all’altro, non ho potuto più rivedere nessuno. Mio padre mi diceva di restare a casa e di continuare a studiare perché uscire era pericoloso. Ma io, a 16 anni, volevo contribuire a cambiare il mondo in cui vivevo, non pensavo ad altro, con le scuole chiuse e il rumore delle bombe in sottofondo. Avevamo impressa sulla pelle l’avversione per quella violenza e le angherie che stavamo subendo, i rastrellamenti, i saccheggi, gli incendi, le uccisioni pubbliche. La nostra coscienza era alimentata da queste sensazioni, ed era normale essere sfacciatamente antifascisti».

Teresa prende tra le mani un’altra immagine e il nastro del tempo sembra riavvolgersi in un attimo: «Ognuno si rendeva utile come poteva, io diventai staffetta senza pensarci un attimo. Con la mia bicicletta azzurra facevo da tramite con le formazioni partigiane nascoste in montagna, costituite anche da ragazzi che non volevano arruolarsi nella Repubblica di Salò e vivevano con documenti falsi, inseguiti dal regime e in estremo pericolo. Li accompagnavo in montagna, anticipandoli nel percorso per evitare loro posti di blocco o persone sospette che avrebbero potuto fare la spia. Andavo da Bibbiano a Canossa, nella provincia di Reggio Emilia: oltre 20 chilometri al giorno, andata e ritorno».

 

Furono mesi sui pedali lungo la Pianura Padana per Teresa la staffetta, nome di battaglia Annuska. «Portavamo anche informazioni a voce, ordini operativi e notizie sugli spostamenti dei distaccamenti partigiani. Su pezzettini di carta, invece, scrivevamo l’elenco delle spese, le richieste di rifornimenti o i rapporti sull’esito di un agguato. Li ripiegavo e li nascondevo nelle trecce. A volte trasportavo anche un giornaletto che le formazioni garibaldine riuscivano a stampare, nascosto in una sporta insieme alle patate».

Teresa Vergalli con le trecce (fine ‘44) © Archivio Teresa Vergalli

Le donne ebbero un ruolo importante nella Resistenza: collaboravano con i combattenti e raccoglievano medicinali, vestiti e cibo per i partigiani. Altre si occupavano di nascondere i ricercati. «Tra il ‘43 e il ‘44 avevamo organizzato una fittissima rete di donne», spiega Teresa, «che arruolavamo tra le nostre amicizie, pur con la paura che qualcuna parlasse e ci facesse scoprire. Poi c’erano anche le gappiste armate, che partecipavano agli attentati e catturavano prigionieri, proprio come gli uomini. Se ci siamo salvati è proprio grazie alla solidarietà di coloro che non hanno fatto la spia. Abitavamo fuori città perché mio padre era stato segnalato: finì in carcere e, per un periodo, fu condannato a morte. La nostra casa era un rifugio per i partigiani che avevano bisogno di protezione o di un pasto caldo. Mia mamma preparava lo gnocco fritto a chiunque arrivasse, c’era sempre il fuoco acceso. Mio fratello Orio aveva 12 anni e anche lui si dava da fare, si chiama così perché mio padre leggeva spesso La Stampa e apprezzava il giornalista Orio Vergani. Eravamo poveri, ma non analfabeti».

 

Prende fiato Teresa, rimette le mani affusolate nella scatola e tira fuori la foto di un ragazzo su una moto. La fissa a lungo come se i ricordi si facessero più appuntiti e acuti. «Lui è stato il primo soldato che ho visto morto: si chiamava Mario Grisendi, ma il nome di battaglia era Folgore, aveva combattuto in Africa dove, a El Alamein, perse una gamba. Quando fu dimesso dall’ospedale decise di lasciarsi alle spalle ciò che aveva visto in guerra e di stare dall’altra parte. Fu ucciso durante un’azione notturna organizzata per catturare un gerarca. Al suo funerale un compagno si alzò e disse: “Folgore, sarai vendicato! A morte il fascismo”. Il giorno dopo i fascisti fecero comunque circondare la casa di Folgore ma non poterono far altro che arrestare sua madre, una donna anziana e straziata dal dolore». 

Anche Prospero, il padre di Teresa, da civile ebbe un ruolo attivo e in prima linea durante la lotta antifascista. Fu più volte manganellato, fu arrestato e si salvò da una condanna a morte. Per sua figlia divenne un grande esempio.

 

Dall’archivio privato di Vergalli esce un’ultima foto che ritrae i primi gruppi partigiani arrivati in una Reggio Emilia liberata. «In questa foto del 22 aprile 1945 manchiamo solo io e mio padre: che eravamo ancora nascosti sulle montagne. Scendemmo due giorni dopo per raggiungere Reggio e Bibbiano (paese natale di Teresa, ndr), diventate città libere. Che gioia! A guerra finita cominciammo la militanza politica vera e propria: il lavoro con le donne, le assemblee con le operaie, le battaglie per i diritti, l’accoglienza dei prigionieri. Fu un periodo di grande impegno. Il 1° maggio di quell’anno parlai in pubblico. Subito dopo ripresi in mano le dispense politiche di Giuseppe Dossetti che leggevo a scuola. Insomma, fu un’emozione così forte che decisi di tornare a studiare».

Articolo tratto da La Freccia