Tra le abitudini indotte dalla pandemia, le videochiamate sulle piattaforme digitali sono ormai diventate il surrogato degli incontri de visu. È così che abbiamo medialogato, un venerdì pomeriggio di fine gennaio, con Flavia Giacobbe, direttore dal 2012 del mensile Formiche. Per farlo abbiamo tribolato un po’ perché, checché se ne dica, la digital revolution deve fare ancora molta strada nel nostro Paese affinché il sol dell’avvenire possa illuminarne i destini. Ma superati firewall sospettosi, WiFi pigri e piattaforme inconciliabili per policy aziendali, hanno poi potuto liberamente esprimersi l’affabilità, la lucidità, l’energia e la freschezza di pensiero della nostra interlocutrice.

 

Intanto, per cominciare, chi è Flavia Giacobbe?

Una giornalista romana che ha mosso i primi passi al quotidiano Il Tempo. Dalla carta stampata sono poi passata alla televisione, come giornalista televisiva per l’emittente Odeon TV e poi, quasi per caso, sono approdata a Formiche. Era l’autunno 2011, e l’idea era di fare una sosta dalla televisione, cimentandomi in una realtà diversa, per poi tornare alla mia precedente esperienza.

 

Invece sei ancora qui, e da oltre otto anni sei direttore del mensile.

Sì, la vita, anche quella professionale, prende spesso direzioni imprevedibili. Sono rimasta a Formiche, e credo di aver fatto la scelta giusta, perché il magazine ha forgiato il mio profilo professionale, aprendomi un mondo fatto di approfondimento e di capacità critica che né il quotidiano né la televisione mi avevano stimolato. La mitezza, la curiosità, l’approfondimento sono secondo me ingredienti preziosi per costruire un giornalista, e non tutti i colleghi hanno la fortuna di poterli coltivare. Insomma, posso dire che si tratta di una storia positiva.

 

In effetti, un direttore donna e giovanissima… non proprio

una mosca bianca ma quasi, almeno qui in Italia.

È così e ti racconto un episodio. Ero da poco direttore, avevo poco più di 30 anni, e sono dovuta andare all’Ordine dei giornalisti per dirimere una questione importante che riguardava un dipendente. Quando il presidente e i consiglieri mi hanno ricevuto pensavano che io fossi il dipendente e non il direttore. «Ma no, non è possibile, lei è troppo giovane. Noi ci aspettavamo una signora più grande». Ecco, arrivare presto in queste posizioni è piuttosto raro, ed è senz’altro un vantaggio, ma anche un pericolo perché ti puoi bruciare per inesperienza.

 

Io credo che, al di là dei percorsi individuali, ci sia davvero bisogno anche nel giornalismo di freschezza, inventiva, voglia di sperimentare, che non sono sempre correlati all’anagrafe, ma spesso sì. Ma torniamo alla dimensione del mensile: hai detto che ti ha aperto un mondo…

Sì, perché viviamo in una grande bolla dell’informazione. Siamo tutti bombardati da messaggi, sempre più numerosi e superficiali, su ogni piattaforma tecnologica. Per questa ragione considero un privilegio poter offrire un luogo in cui far sedimentare il pensiero e generare sia approfondimenti sia confronti. Quel luogo è la rivista.

 

Ecco, raccontaci bene cos’è Formiche.

Intanto è un progetto editoriale che ha scelto sin dalla sua fondazione di scommettere sul mercato. Non ha mai goduto, per scelta, del finanziamento pubblico. È una rivista che si può comprare in libreria, ricevere in abbonamento o acquistare in versione digitale. Trattiamo argomenti che abbracciano la politica, interna ed estera, ma anche l’economia, la cultura, le tecnologie, l’ambiente e la sicurezza. Ci sforziamo di essere una rivista seria, ma certo non grave. Insomma, non vogliamo essere guardati come un oggetto da collezione. Formiche è da leggere.

 

Già perché oggi, nell’epoca dei tweet e dei messaggi sincopati, i tempi di attenzione si sono molto contratti. E questo penalizza l’approfondimento, lo fa apparire tedioso.

L’affermazione dell’infosfera ha prodotto molte opportunità ma anche numerose contraddizioni. La nostra società sta cambiando con la sua comunicazione. E dovremmo prestare tutti maggior attenzione. Tornando a Formiche, negli anni abbiamo modificato il nostro format, rendendolo più snello e fruibile. Per esempio proponiamo interventi che siano contenuti in due pagine. Non abbiamo la presunzione di competere con Denis Diderot e la sua Enciclopedia. Facciamo di tutto per favorire e invogliare la lettura, provando a confezionare anche un prodotto bello, elegante e con bellissime illustrazioni.

 

La lunghezza non eccessiva è una strategia, ma non credo l’unica.

Esatto. Formiche cerca di essere una rivista mai uguale a se stessa. Cerchiamo sempre di sorprendere il lettore e incuriosirlo. Per questo, i temi che affrontiamo sono sempre diversi e soprattutto sono numerosissimi gli autori prestigiosi che coinvolgiamo. Il pluralismo delle idee e dei punti di vista, purché ancorati alla qualità e alla profondità, sono un elemento di distinzione che proviamo a preservare. Nell’interesse dei nostri lettori.

Chi sono i vostri lettori?

Ci rivolgiamo soprattutto alle istituzioni, ai policy maker, alle aziende, alle università, al terzo settore, a quanti già sono o si candidano a essere classe dirigente consapevole. Abbiamo una diffusione di circa 15mila copie, un target di nicchia ma capace di ampliarsi attraverso l’engagement che riusciamo a ottenere con i social media. Più di un nostro webinar ha registrato singolarmente un’audience superiore ai 100mila contatti.

 

Perché, com’è ormai consuetudine nel mondo dell’editoria, anche Formiche fa parte di un ecosistema più ampio…

È ben più di una rivista, è una vera e propria comunità. Dialoghiamo attraverso il mensile, il quotidiano online e i seminari, ora in formato digitale. Si tratta di appuntamenti che stanno conquistando sempre più attenzione. Nonostante siano proliferate le iniziative online, le nostre hanno un carattere distintivo che le rendono particolarmente attrattive. Sui nostri canali è possibile dialogare con l’astronauta Luca Parmitano oppure con John Podesta, fondatore del think tank Center for American Progress e già consigliere dell’ex presidente Usa Barack Obama. Senza contare incursioni come quella della famiglia Surace. Contenuti di qualità e ospiti non banali. Questa formula piace molto.

 

E qual è il rapporto con il sito Formiche.net?

La rivista cartacea rappresenta il progetto e il nucleo originario. Da lì, dopo un po’ di anni, è nata l’idea di un sito che potesse approfondire proprio le questioni del quotidiano. Fin dall’inizio, abbiamo deciso di creare due piattaforme completamente diverse, con direttori e redazioni a sé stanti. Diciamo che siamo due corpi distinti, ma nient’affatto distanti. Abbiamo linguaggi diversi per una fruizione che è completamente differente. Nonostante questo, abbiamo una grande identità di stili. Il marchio “Formiche” ci unisce e ci rende un’unica grande squadra, molto affiatata. Come si evince nelle sinergie che mettiamo in campo sui webinar.

 

Con risultati lusinghieri, visti gli oltre 100mila contatti raggiunti

sul web…

Integrare online e offline è una sfida bellissima e ogni giorno diversa. La comunità di Formiche si aspetta da noi una informazione di qualità, anche nei social. C’è un forte desiderio di contrastare la sempre più diffusa, e più subdola, disinformazione.

 

In effetti sui social troviamo di tutto, un incontrollabile mix

di verità e post verità, news e fake news. Urgono antidoti…

Questa nuova dimensione della comunicazione mette a rischio la stessa democrazia, come abbiamo visto recentemente con i fatti di Capitol Hill. Potremmo citare le interferenze registrate in occasione della Brexit, nelle elezioni americane del 2016, con la stessa pandemia. Insomma, oggi serve da parte di tutti un plus di responsabilità. Soprattutto per i giornalisti. Nel suo piccolo Formiche, in tutte le sue piattaforme, cerca di proporsi come una modesta ma efficace bussola per comprendere e decifrare gli eventi che viviamo, orientandosi nei cambiamenti in atto.

 

Insomma, il ruolo del giornalismo e dei giornalisti, dopo la sbornia dei movimenti anti establishment che non li ha risparmiati, torna a essere fondamentale.

Non ha mai smesso di esserlo, anche se con l’affermazione dei social network si era fatta avanti l’idea di una possibile disintermediazione tale da rendere la figura del giornalista quasi superflua, in procinto di essere completamente travolta dalla rivoluzione digitale. E invece il successo dei new media e dei social ci hanno di fatto mostrato ancora di più il valore di questa professione, del rispetto di regole condivise, dell’autorevolezza e della serietà delle fonti e quanto un’informazione professionale costituisca una tutela per l’opinione pubblica.

 

E anche, condivido, una tutela per la democrazia. Resta tuttavia il problema, al quale hai fatto prima cenno, della smodata quantità di informazioni che riceviamo e della superficialità nell’elaborarle.

È vero, con l’informazione compulsiva che troviamo in Rete spesso pensiamo di essere molto e ben informati ma, in realtà, non è così. È una percezione ingannevole. Non basta leggere un titolo, magari gridato, per dire: «Ho capito la notizia, la so». E questo è il modo più sbagliato per informarsi. Come ho detto, il tema della superficialità è complesso, e riguarda anche una società che si sfilaccia, come ci ammonisce il professor Giuseppe De Rita. Questo accresce la responsabilità dei media e dei suoi operatori. Ma è anche una questione culturale e, lasciami dire, educativa.

 

Insomma, un ruolo anche pedagogico che la scuola negli anni ha un po’ smarrito e che, di fronte alle nuove frontiere della comunicazione, dovrebbe ritrovare. Perché il web, e il digitale, insieme alle enormi opportunità nascondono insidie e minacce.

Riconoscere che c’è un ingrediente importante di disinformazione nella nostra società mostra la necessità che le giovani generazioni, ma anche gli adulti, debbano imparare a maneggiare con consapevolezza Internet e i social, saper alzare la guardia, cercare sempre l’autorevolezza della fonte. Non eravamo pronti a questo nuovo mondo ma dobbiamo essere rapidi nel fornire ai giovanissimi strumenti cognitivi adeguati. Senza bussola rischiano di annegare nell’oceano dell’infosfera.

 

L’autorevolezza della fonte. Ecco, qual è lo stato di salute del giornalismo in generale e di quello italiano in particolare?

Il giornalismo in Italia, secondo me, gode di buona salute. Anche in America abbiamo visto come la funzione critica svolta da una buona parte dei media abbia costituito un ingrediente importantissimo per il lievito della democrazia. Per altri versi, la professione vive un momento di trasformazione che la pandemia non ha fatto altro che accelerare. La questione per tutti noi è come governare il cambiamento senza esserne vittime.

 

Su questo numero della Freccia noi parliamo soprattutto d’amore. E su Formiche, qual è il tema del mese?

Napoleone Bonaparte. Ma in fondo affrontiamo anche il suo rapporto con l’amore, quindi siamo allineati al vostro magazine. A maggio saranno 200 anni dalla morte di Napoleone, e noi abbiamo voluto soffermarci su questa figura storica molto controversa, dalle tantissime sfaccettature, ma anche molto attuale. Attenta all’importanza della comunicazione, abile nel promuovere il ”brand Napoleone”, con idee brillanti sulla ricerca del consenso e visioni quasi premonitrici. Mentre si affermavano i valori della Rivoluzione, Bonaparte già pensava al valore che avrebbe avuto un’Europa unita e al pericolo di Pechino: «Quando la Cina si sveglierà il mondo tremerà».

 

Ci salutiamo ricordando Il cinque maggio di Manzoni e, posteri quali siamo, pronunciamo dopo due secoli l’ardua sentenza: sì, fu vera gloria. Che Formiche celebra con un numero da non perdere.

 

Intervista tratta da La Freccia di febbraio 2021