Presidente della giuria letteraria al Premio Internazionale Elba-Brignetti

Ho letto Martin Eden (Jack London, Mondadori, pp. 448 € 11) a 20 anni e mi parve un romanzo meraviglioso. L’ho riletto a 30 e mi piacque intensamente. Oggi che sono grande (di età, come dicono a Livorno) ho concepito il deliberato proposito di confrontare la percezione della stessa opera letteraria al mutare del tempo e delle età.

Martin Eden è un rozzo marinaio che salva la vita del giovane Arthur, rampollo di una ricca famiglia. E sua sorella Ruth diviene per lui una sorta di ideale di bellezza. Irraggiungibile fanciulla dell’alta borghesia, si ritrova a desiderarla tanto da voler fare parte del suo stesso ceto, ma il riscatto sociale passa dalla porta stretta della letteratura: Martin vuole diventare uno scrittore a tutti i costi (va ricordato che lo stesso Jack London, autodidatta, fece fatica ad avere successo). Pur non ritrovandosi nelle ipocrisie e nel disprezzo malcelato di quell'ambiente, si impegna a tal punto che quasi riesce a sfondare, ed è allora che scoppia la sua rabbia. Contro una classe piena di pregiudizi, incolta, e anche contro la sua autoaffermazione. Una rabbia che avverte come una sconfitta.

 

A 20 anni questo classico della letteratura americana mi colpì per come l’amore struggente di Martin per Ruth superava ogni cosa. Nel suo stomaco c’era sempre un formicolio, un dolore all’idea di poterla anche solo vedere, di un sorriso, di uno sguardo. Tutto pareva esser fatto per lei, dallo studio forsennato della grammatica, mentre era mozzo in mare, alle mille privazioni a cui si sottoponeva. La vita intera, insomma, era una sorta di riscatto d’amore. A 30 anni la forza dell’amore si era stemperata e due cose mi conquistarono: leggendo, avevo sentito l’odore del salmastro entrare di corsa nei miei polmoni e i venti alisei soffiare forte sul mio volto. Scoprii anche la forza d’animo di Martin (e di London) nel voler diventare scrittore.

Jack London (1876-1916) ©Hulton Archive/GettyImages

Alla stazione delle opportunità, come mi piace chiamare le chance che la vita ti offre, lui c’era sempre, di giorno e di notte, senza bere e senza mangiare, inesausto nel vedersi respingere 300 volte un articolo prima che fosse finalmente pubblicato o nel guadagnare tre dollari al mese quando solo l’affitto ne costava due e mezzo. E poi, pian piano, il successo, a riprova, mi dicevo, che la stazione delle opportunità almeno una chance nella vita la offre a tutti.

 

Intorno ai 75 anni la parte finale del libro mi si è svelata di colpo come una grande anticipazione di quella che sarebbe stata considerata la più grande malattia del secolo scorso e cioè la malinconia che si trasforma in depressione. La valle d’ombra che pervade le ultime pagine dell’opera ci dice proprio questo. Del resto London è turbato nel leggere Jung e comprende che forse in fondo alle sue opere, anche le più note, vi è un abisso inesplorato.

 

Fernanda Pivano, che si è sempre sottratta alle critiche di maniera al grande scrittore americano, lo aveva spiegato bene: «Gli eroi di London cominciano sempre ad agire nel tentativo di conquistare la vita, di allargarla, di darle una dignità e finiscono per essere divorati, sconfitti, ma dalla vita stessa, non dalla morte».