In apertura, il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa © Ansa/Archivio storico. Di seguito, immagini storiche tratte dall’Archivio dell’Arma dei Carabinieri

«Non abbiamo paura di nessuno». Sono queste le parole pronunciate da Carlo Alberto dalla Chiesa alla Commissione antimafia, il 28 marzo 1969. A 40 anni dal suo assassinio, per molti giovani il sacrificio di questa importante personalità della vita pubblica italiana, un Generale dei Carabinieri, figlio, fratello, genero, padre e suocero di Carabinieri, Prefetto speciale di Palermo incaricato di contrastare la mafia in un periodo di particolare recrudescenza, è sfocato e si perde nel tempo.

Le nuove generazioni vivono in un eterno presente e a trarre dall’oblio la figura del grande Generale contribuiscono di certo talenti come Sergio Castellitto, protagonista della fiction Il nostro Generale, prossimamente in onda su Rai1, o Giancarlo Giannini, che ha indossato gli stessi panni in uno sceneggiato andato in onda 15 anni fa su Canale 5. Né si può dimenticare Cento giorni a Palermo, il film di Giuseppe Ferrara uscito nel 1984, a due anni dal massacro, con la maschera rude di Lino Ventura chiamata a interpretare i profondi sentimenti umani del Generale.

Ma Carlo Alberto dalla Chiesa non è un personaggio di fantasia. La sua figura e il suo supremo sacrificio quale servitore dello Stato meritano di essere diffusi ad ampi strati di popolazione nella loro verità storica. È quanto ci proponiamo di fare in questo spazio, per raccontare l’uomo, non solo il simbolo.

Il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa

Fedele allo Stato, visse nel culto delle tre “c”: i Carabinieri, che erano la sua famiglia, il coraggio, al servizio della verità, e il cuore, palpitante di umanità. In prima linea sin da Sottotenente quando, dopo esser transitato dal Regio Esercito nei Reali Carabinieri, non esitò a schierarsi a favore della Resistenza nelle Marche e in Abruzzo. Trascese gli stereotipi di un’epoca con la visione, l’intuito, l’analisi, sempre a monte dell’azione propriamente detta, e un metodo sistemico applicato a due cancri della storia d’Italia: il terrorismo e Cosa nostra.

Era il 1973 quando, per la prima volta, puntò i riflettori sulla necessità di confiscare ai mafiosi beni e capitali, molti dei quali all’estero, per screditare l’aura d’invincibilità degli uomini d’onore, lontani anni luce dall’accezione tradizionale del termine mafioso. La parola, d’origine toscana e francese, compare in un testo di Giuseppe Pitrè, studioso di tradizioni popolari siciliane e folkloristiche italiane, e fa riferimento a un modo di essere, a un’idea di bellezza, fisica o spirituale, di tipo superiore, a qualcuno che mostri sicurezza d’animo ma non tracotanza. Insomma, nulla ha da spartire con l’organizzazione criminosa.

Il giovane Capitano intuì le relazioni opache fra istituzioni, società civile e criminalità organizzata già nel 1950, non ancora trentenne, in soli nove mesi di comando del gruppo squadriglie di Corleone, nel Palermitano. A stretto contatto con la popolazione siciliana, non soltanto ne colse i bisogni e le misere condizioni in cui versava, ma lesse fra le righe le speranze per una società più giusta.

Solo pochi anni prima, le lotte sindacali e le rivendicazioni per la riforma agraria dei contadini, terrorizzati dal patto dei latifondisti con la mafia, erano culminate negli omicidi dei sindacalisti Accursio Miraglia e Placido Rizzotto, quest’ultimo infoibato nella Rocca Busambra (PA), che gettarono le fondamenta di quella che passerà alla storia come la stagione del terrore, sotto la cui mannaia caddero molti servitori dello Stato, incluso lo stesso dalla Chiesa.

Fu proprio il Capitano a incriminare per l’omicidio Rizzotto il mafioso Luciano Leggio, meglio conosciuto come Liggio, e i suoi complici. Per la prima volta, nei dossier, comparvero i nomi di Calogero Bagarella, Bernardo Provenzano e Totò Riina. Tutti assolti per insufficienza di prove e il giovane Ufficiale trasferito: questo il triste bilancio. Eppure, una breccia fu aperta nel muro: si comprese la pericolosità dei Corleonesi e quanto espansiva fosse la loro capacità di crescita.

Il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa

Tornò ancora nell’isola del destino dal ‘66 al ‘73, col grado di Colonnello al comando della Legione di Palermo. Il suo fiore all’occhiello fu la lotta al terrorismo, una battaglia vinta con tenacia e intelligenza. Dalla Chiesa capì subito che le bande armate non erano un fatto episodico e per combatterle era necessaria una strategia d’intenti. Sotto l’egida della scintillanza del capo, il Nucleo speciale antiterrorismo, detto Scintilla, costituito il 20 maggio 1974, non tardò a produrre i suoi effetti e subito inferse un duro colpo alle Brigate Rosse (BR), particolarmente attive nel triangolo industriale Milano-Torino-Genova, con la cattura dei fondatori Renato Curcio e Alberto Franceschini.

Il Generale mise in campo una filosofia investigativa di tipo sistemico, basata su una conoscenza della struttura eversiva in costante approfondimento, che non sottovalutasse i metodi di reclutamento e i media scelti dalle bande armate.

Per contrastarle si avvalse sempre più spesso della tecnica dell’infiltrazione. Per battere il nemico bisognava conoscerlo dall’interno, quindi disarticolarlo, azzerando le sue possibilità di autorigenerazione. Sciolto dopo un solo anno di attività, per una campagna mediatica denigratoria contro i metodi del Generale e i suoi, il Nucleo speciale fu riattivato dopo un grave attacco delle BR allo Stato: il sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, di cui dalla Chiesa aveva seguito le lezioni a Bari, nell’ateneo intitolato al grande statista, dove il Generale conseguì le sue due lauree in Giurisprudenza e Scienze politiche.

Dopo momenti di scudo contro scudo fra Stato e gruppi armati, l’attività di contrasto del Generale si rafforzò grazie anche alle Sezioni speciali anticrimine passate alle sue dipendenze il 30 agosto 1978. Usando uno dei media più potenti dell’epoca, la televisione, il 13 febbraio 1981 intervenne al Tg1, e con lui i Generali Umberto Cappuzzo e Vito De Sanctis, per dire a tutti che le Brigate Rosse avevano i giorni contati. Tragico era stato il bilancio dell’anno precedente chiuso con l’attentato al Generale Enrico Galvaligi, suo vice nei Servizi di sicurezza degli istituti di prevenzione e pena (Sicurpena).

Una volta smembrato il fenomeno terrorismo e ridotta la sua minaccia, dalla Chiesa fu pronto a riconvertire la metodica per applicarla alla criminalità organizzata. Provato moralmente dalla perdita dell’amata Dora – «la vittima più silenziosa del terrorismo», come il cappellano militare la definì nell’omelia funebre – stroncata da un infarto nel ‘78, dopo una vita passata nell’incertezza costante di rivedere il suo uomo, nominato vice Comandante Generale dell’Arma, ogni volta che usciva di casa, non terminò il mandato perché scelto come Prefetto di Palermo, il 2 aprile 1982.

Con l’ombra disegnata da una sua domanda d’ingresso nella Loggia P2 si tentò subito di affievolire la luce della sua stella. Si chiacchierava di contatti fra massonerie e mondo mafioso e scoprirli dall’interno poteva essere la mossa vincente per inchiodare i responsabili, oltretutto sulla scorta dell’esperienza già fatta contro il terrorismo, battuto anche grazie al contributo degli infiltrati. Comunque sia, il Generale ne uscì a testa alta, assolto dal Consiglio di disciplina delle Forze Armate.

Ancora destinazione Sicilia, quindi, chiamato da un’emergenza in continua crescita: dieci le vittime nell’80, 50 nell’81, quasi 20 nei primi mesi del 1982, 52 morti e 20 lupare bianche – omicidi di mafia con occultamento del corpo – nell’estate in cui dalla Chiesa fu a Palermo. Cento i giorni della terza volta nell’isola. Quella fatale.

Il Generale Carlo Alberto dalla Chiesa

«Non guarderò in faccia nessuno», affermò appena atterrato nel capoluogo siciliano. Disillusa e stanca, gravata da collusioni e scetticismo, la città lo boicottò anche sulla stampa. Il Prefetto si sentì solo, abbandonato dalle istituzioni, e l’ennesima vittima sacrificale fu proprio lui, caduto il 3 settembre 1982 in un bagno di sangue che incluse la giovane moglie, Emanuela Setti Carraro, sposata da neanche due mesi, e l’agente di polizia Domenico Russo. Pochi giorni dopo il barbaro assassinio, il cui clamore riverberò anche sulla stampa internazionale, su proposta del comunista Pio La Torre e del democristiano Virginio Rognoni, fu approvato l’art. 416 bis del Codice penale che riconosce il reato di associazione mafiosa accanto all’associazione a delinquere. Una conquista importante, doverosa nei confronti del sangue innocente versato.

La lotta contro due giganti, terrorismo e Cosa nostra, non era sullo stesso piano. Non poteva esserlo. Corruzione, aderenze e infiltrazioni minavano pesantemente la seconda battaglia. Una volta lasciato solo, anche per un uomo come dalla Chiesa il temuto colpo di grazia non tardò ad arrivare. «Ti hanno mandato a Palermo per fare da parafulmine!», furono le parole urlate nel film Cento giorni a Palermo dalla sua sposa, per bocca di Giuliana De Sio, preoccupata per lui sulla base di un ragionamento semplice ma raccapricciante. Se la mafia non riusciva a sconfiggerla neppure un uomo come lui, era inutile continuare a provarci. Era l’alibi perfetto. Eppure, la figura del Generale dalla Chiesa – 24 tra lapidi, busti, sculture e monumenti alla sua memoria, centinaia le strade, le scuole, le caserme a lui intitolate – compresa quella simbolica che le opere filmiche hanno provato a restituirci, dovrebbe bastare per infondere speranza nei cuori. Del resto, non sono casuali le parole sul cartello della caserma Talamo, a Roma, allora centro nevralgico dei Servizi Sicurpena e oggi sede del Ros, il Raggruppamento operativo speciale: «Il possibile lo facciamo. L’impossibile cerchiamo di farlo. Per i miracoli ci stiamo organizzando».

Articolo tratto da La Freccia