Foto ©Azzurra Primavera 

La carica umana che ritroviamo nei personaggi che interpreta è anche la sua. Così come la simpatia e quel fare un po’ guascone con il quale ti accoglie nel suo ristorante al centro di Roma, in via della Frezza, a pochi metri da via del Corso. Sì, perché Claudio Amendola ha la passione non tanto della cucina bensì della convivialità e del calore che lo stare a tavola insieme è capace di infondere. Così come lui entra nelle case degli italiani attraverso il cinema e la televisione, gli italiani possono andare da lui al Frezza - Cucina de coccio, aperto il 25 novembre, cuore della cucina romana all’ennesima potenza. Dalla bomba salata con la trippa al supplì cacio e pepe fino ai piatti della tradizione come l’amatriciana, i saltimbocca alla romana, gli straccetti di manzo e le mitiche polpette al sugo, il menù è decisamente ricco. E offre anche diverse pizze d’autore.

La carbonara è più scienza o più poesia?

Nessuna delle due: è bona (ride, ndr). Anche se un po’ di scienza indubbiamente serve, ma di poesia ne vedo poca.

 

Frezza non è il tuo debutto come ristoratore. Ti piace questo mestiere?

Il primo locale l’ho aperto nel 1990 a Trastevere, l’ho tenuto fino al ‘94 ed è andata molto bene. Da dieci anni, poi, ho un ristorante-pizzeria a Valmontone che mi dà molte soddisfazioni. Ma volevo tornare a Roma per creare un luogo dove mangiare, chiacchierare, condividere emozioni, togliere la maschera e giocà a scopetta. Mi rendo conto che con l’età, invece di diventare burbero, sono più accogliente. Mi fa piacere vedere lo stupore della gente quando sono io ad aprire la porta. Sono fatto così, le persone mi piacciono. Ieri sera c’era una coppia che si è trattenuta a lungo gustando le polpette di nonna, che sono proprio così. «Sembra di stare a casa», mi hanno detto. Io ho risposto che mi faceva piacere ma era ora che ci andassimo pure noi. 

Foto di Claudio Amendola

Proponi sapori che sanno di famiglia?

Sì, la nostra pizza mi ricorda quella che mangiavo tutti i giovedì con mamma, una donna colta e curiosa. Era una tradizione per me e mio fratello: film di Totò alle sei e mezza, poi pizza veloce e un secondo film tra quelli in programmazione.

 

La tua è una vita ricca di passioni: molte le hai portate sullo schermo e altre su un palcoscenico naturale come quello di un ristorante.

Ho avuto la fortuna di poter coltivare un’esistenza piena. La passione vera è quella del piacere e la tavola è sicuramente uno di quelli più appaganti perché unisce la gratificazione fisica a quella cerebrale.

 

Come hai raggiunto la capacità interpretativa di oggi?

Con gli incontri, i viaggi, la curiosità. E imparando dagli altri, consapevole che in questo mestiere si migliora film dopo film, serie dopo serie: col tempo il bagaglio si arricchisce e apprendi cosa funziona e cosa no. Ma ho sempre avuto una grande dose di disincanto e leggerezza. Non mi sono mai preso troppo sul serio e mi considero tuttora più un artigiano che un artista. Per esempio, ho capito piano piano come utilizzare il corpo, senza aver mai frequentato nessuna scuola o aver avuto qualcuno che mi insegnasse come calibrare il tono vocale. Da questo punto di vista avevo esempi in casa molto importanti e ho fatto tesoro dei consigli di mio padre e di mia madre sull’uso della voce. Senza dimenticare l’incontro con determinati registi. 

Foto di Claudio Amendola

Chi ti ha lasciato il segno più profondo?

Wilma Labate, che mi ha diretto in due film. Si trattava di ruoli per i quali era necessaria una particolare vena interpretativa, due personaggi molto diversi da me ma nei quali mi sono riconosciuto. In Domenica mi ha insegnato a usare le mani con un piccolo stratagemma: mi ha fatto cucire le tasche dell’impermeabile. Grazie ad alcuni registi ho imparato anche gli errori da non commettere quando, a mia volta, sono stato io dietro la macchina da presa.

 

Sei il protagonista di una nuova serie che andrà in onda a marzo su Mediaset. Di cosa si tratta?

Il Patriarca è una storia di azione, cri mini, sentimenti, famiglie, intrecci e tradimenti. Molto televisiva. A giugno, invece, cominceremo le riprese della seconda e terza parte di Cassamortari e giocheremo con ironia, cinismo e cattiveria: trovo molto divertente scherzare sulla morte.

 

Cosa apprezzi nelle persone e cosa detesti?

Mi piacciono molto la sincerità e la lealtà. Detesto le persone arroganti e il tradimento, non inteso come quello tra marito e moglie, ma quello di un’amicizia e di determinati valori. Infine, non sopporto la non considerazione del merito, penso che solo quando in Italia si comincerà a puntare su questo potremo avere ottimi risultati.

 

Dove sei cresciuto?

A Roma nord, tra la Balduina, Monte Mario e via Igea.

 

Se tornassi bambino quale sarebbe il profumo della tua infanzia?

Quello di mia madre.

 

Ti piace viaggiare in treno?

Lo utilizzo sempre e ci sono due cose che apprezzo molto. Innanzitutto, la velocità dell’accesso: arrivo e salgo senza attese né file. Una volta seduto al mio posto, mi piace immergermi in quel piccolo bozzolo fatto di silenzio, che spesso dipende dalla cortesia degli altri viaggiatori. Il treno è un bel viaggiare, metto le cuffiette, mi godo il paesaggio e arrivederci. E poi c’è l’elemento vincente: la velocità.

 

Ricordi legati a questo mezzo di trasporto?

I viaggi per vedere le partite della Roma in trasferta, sempre in tanti, con i treni speciali. Erano diversi da quelli di oggi: c’erano gli scompartimenti in cui ti chiudevi dentro sperando che non entrasse nessuno così potevi stendere le gambe. Purtroppo sistematicamente arrivava qualcuno e dovevi rimetterti seduto. Nel film Ultrà, poi, abbiamo girato a lungo su un vagone. E mi ricordo bene anche il treno per Amsterdam, la prima vacanza da ragazzo con quattro amici.

Foto di Claudio Amendola

È più bello interpretare un personaggio in cui ti riconosci o qualcuno molto diverso da te?

Indubbiamente è più semplice vestire i panni di qualcuno che ti assomiglia. Diciamo che molti personaggi vengono scritti appositamente per l’attore. Una bella sfida, invece, è recitare in un ruolo molto diverso o usare un’altra lingua. È più faticoso e rimpiangi di non aver accettato di fare quella fiction così facile. Ma in realtà, poi, è gratificante.

 

Ci sono figli d’arte che non hanno raggiunto la popolarità dei genitori, tu hai superato la fama di tuo padre.

Solo per quei dieci centimetri in più o i lineamenti più carucci. E per la fortuna di aver cominciato questo mestiere negli anni ‘80, un periodo molto stimolante, in cui era tutto bello e facile. Ho fatto tanta televisione con papà, poi a 27 anni ho cominciato con il cinema. Ma per portare a termine tutto quello che ha fatto lui mi servirebbero sei vite.

 

Che vantaggi ha una serie tv rispetto al cinema?

Consente di rendere seriale anche l’affetto che si prova verso un personaggio, l’attore che lo interpreta e il tipo di storia. Quando per tanti anni entri nelle case degli italiani, magari mentre mangiano, diventi molto familiare per le persone. Me ne accorgo quando le incontro o vengono a trovarmi qui al ristorante.

 

Nella fiction Nero a metà interpreti un commissario di polizia. Da bambino sognavi di diventarlo?

No, mai. Volevo fare il ladro (ride, ndr).  

 

Articolo tratto da La Freccia di gennaio 2023