In cover Atrio della biglietteria (1959) - Archivio Fondazione FS Italiane

Settant’anni fa, il 20 dicembre 1950, si inaugurava in una Roma ancora ferita dalla guerra la nuova Stazione Termini, allora come oggi la più importante e più frequentata d’Italia. L’avveniristica pensilina di cemento armato sulla facciata di piazza dei Cinquecento segnalava una grande voglia di ricominciare – le case distrutte dalle bombe nel quartiere San Lorenzo erano a pochi passi – e anche un desiderio di essere moderni, eleganti, lontani da monumentalità e retorica.

 

La pensilina, opera degli architetti Eugenio Montuori, Leo Calini e Annibale Vitellozzi, incorniciava in una grande vetrata un tratto superstite delle Mura Serviane, la cinta muraria più antica di Roma, con una forma ardita che fu subito definita il Dinosauro.

 

Da questo grande atrio luminoso, occupato allora come oggi dalle biglietterie, si accede a una larga strada pedonale coperta che unisce i due fianchi della stazione, percorsi da via Giolitti e da via Marsala. Procedendo oltre, si arriva alla galleria di testa dove si trovano i binari.

 

Questo impianto razionale, che diluisce in vari transiti successivi il passaggio dal viaggio alla città e viceversa, è sostanzialmente quello di oggi e si è dimostrato capace di accogliere molti aggiornamenti: il collegamento con la prima linea della metro (1955), il centro commerciale sotterraneo (2000), la Terrazza Termini e i ristoranti del Mercato Centrale (2016) e presto il nuovo parcheggio con servizi realizzato sopra i binari.

Panoramica lato piazza dei Cinquecento (1992)

Per realizzare la stazione erano bastati tre anni, veramente pochi, e dietro si sentiva la spinta di Guido Corbellini, ministro dei Trasporti ma soprattutto ingegnere ferroviario: i più anziani ricordano le carrozze Corbellini, con le due porte centrali (proprio come i convogli regionali Vivalto di oggi), che hanno fatto viaggiare i pendolari del dopoguerra.

 

I problemi da superare per la nuova stazione erano molti, e non solo di carattere tecnico. Il rinnovamento di Termini era stato commissionato già nel 1939 all’ingegnere capo delle ferrovie, Angiolo Mazzoni: architetto di grande valore, curioso, eclettico, che ha disseminato l’Italia di stazioni e uffici postali molti dei quali di qualità eccellente e, in alcuni casi, straordinaria. Fascista convinto (tanto che nel dopoguerra emigrò in Sudamerica e ci rimase fino al ’63), Mazzoni nel progetto di Termini aveva unito al suo gusto moderno un intento monumentale: la stazione era anche un simbolo del regime.

 

L’ingresso nello scalo, per chi giunge col treno, era ed è segnato sui due lati da due affusolate torri per l’acqua, di gusto futurista, a cui Mazzoni applicò eleganti scale elicoidali esterne; tuttavia, più ci si avvicinava alla città, più il progetto risentiva del clima retorico del tempo che chiedeva alla stazione di essere imponente.

 

La facciata su piazza dei Cinquecento avrebbe dovuto essere un massiccio porticato in marmo. I lavori furono sospesi nel ’43, la facciata non era stata ancora realizzata, mentre era pronto il lato su via Giolitti, il più vicino al centro. Mazzoni l’aveva considerato, proprio per questo, una seconda facciata e l’aveva disegnato con le grandi arcate che ancora oggi vediamo, ispirato ai monumenti della Roma imperiale, inserendo al piano superiore un lunghissimo corridoio ad archi, come un antico acquedotto. Il ristorante era adorno di un’enorme cappa in marmo – oggi parte del Mercato Centrale – in cui si sarebbe potuto arrostire un bue intero.

Concerto di Natale della Banda della Polizia di Stato (2008) - Archivio Fondazione FS Italiane

Il pregio principale del progetto del dopoguerra di Montuori, Calini e Vitellozzi è la transizione morbida dal vecchio al nuovo edificio. Soprattutto nella facciata e sul lato in via Giolitti, i passeggeri che vanno di fretta non hanno l’impressione di una discontinuità, e non ce l’hanno avuta neppure gli spettatori del bel film Stazione Termini, realizzato nel 1953 da Vittorio De Sica interamente dentro lo scalo ferroviario.

 

La stazione, pur composta di tanti edifici, riesce infatti a dare di sé un’impressione unitaria cui contribuisce anche la recente Terrazza Termini da cui si ha una panoramica dei binari e dei lavori in corso per i nuovi parcheggi. In più con la demolizione del negozio commerciale nell’atrio, si potranno rivedere le meravigliose mura serviane, il colpo d’occhio sarà completo.

 

Vi sono poi, come in ogni monumento romano che si rispetti, le catacombe di Termini. Come Milano Centrale, la stazione è un enorme terrapieno sopraelevato. Sul lato est, a ridosso del quartiere San Lorenzo, si appoggia addirittura alle Mura Aureliane che, arrivando col treno, si vedono sulla destra. Il terrapieno è un labirinto di locali tecnici, precluso ai non addetti ai lavori, e va visitato anche lo straordinario rifugio antiaereo in cui era duplicata la cabina di controllo esterna Ace, l’Apparato centrale elettrico, nel caso in cui quella principale fosse stata colpita da un attacco nemico, ma non è mai accaduto.

 

È bello partire e arrivare, ma anche mangiare una pizza o comprare una felpa, in un edificio moderno e pieno di curiosità che ci parlano di un passato recente e antichissimo; ricco di tecnologie ma anche di ricordi, individuali o dell’intera nazione. Da qui milioni di persone sono passate, e continuano a passare ogni giorno.

Articolo tratto da La Freccia