La Verità: un obiettivo e una promessa

Il giornalismo secondo il direttore, Maurizio Belpietro

02 aprile 2019

 

Il viaggio della Freccia inizia da Milano, dall’ufficio di Maurizio Belpietro, direttore del quotidiano La Verità e, da pochi mesi, anche di Panorama. Passione, curiosità e un approccio sempre originale, che sfruculia dietro la patina dei déjà-vu senza concessioni ai conformismi del politicamente corretto. L’entusiasmo di Belpietro ci inonda contagioso, e prodigioso, soprattutto per uno che vive di giornalismo da 44 anni. Insomma, niente di più lontano da quella vulgata immagine televisiva che lo vuole spesso irritante e tacciato di supponenza. Una maschera su cui ha giocato fin dalle prime apparizioni sul piccolo schermo, arrivando ad adottare come titolo della trasmissione, da lui condotta dal 2004 al 2008 sulle reti Mediaset, il commento di due signore milanesi incrociate per strada: «L’hai visto? Quello è il giornalista antipatico che è sempre in tv».
Poco più di due anni fa hai fondato un nuovo giornale. Di questi tempi cos’è: un atto di coraggio, di fede o di follia?
È innanzitutto un atto di straordinaria passione per questo mestiere. Unita a un pizzico di follia, perché quando ho fondato La Verità non mi sono forse neanche reso conto di quanto sarebbe stata complessa l’impresa. Però follia e passione alla fine si sono tradotte in un risultato di successo.
Sarà stato complesso soprattutto trovare finanziatori disposti a darti fiducia.
Tutti mi dicevano: «Sì, ti aiutiamo, ma se lo fai online». Ricordo banchieri e imprenditori che cercavano di convincermi che il futuro fosse il web. E io: «No, online non funziona, non si paga. Voglio la carta perché c’è, e sta ancora in piedi».
Decisamente controcorrente.
Sì, ma abbiamo dimostrato che è così: la carta funziona, l’online zoppica. Tutti i giornali online che non hanno una versione cartacea sono in perdita. Noi invece abbiamo raggiunto tutti i nostri obiettivi.
Ossia?
Io dicevo: «Venderemo tra le 20 e le 30mila copie», ma persino lo stampatore era scettico: «Se sarai bravo ne venderai 10mila». Invece eccoci qua, in un mercato saturo d’informazione, dove si dice che i giornali sono morti, vendiamo le copie che avevo immaginato, con un trend di crescita del 13%, in assoluta controtendenza.
E qual è il segreto?
Facciamo un giornale diverso dagli altri, noiosi e pensati come fossimo ancora nel ’900, ossia prescindendo dal fatto che esistono la televisione, la radio, Internet e gli smartphone. Raccontano quello che il lettore già sa, magari da ore. Quasi dovessero loro certificare le notizie. Ma non è più così: si deve andare a caccia di notizie nuove, raccontare storie diverse, avere il coraggio di fare inchieste e avere opinioni controcorrente e originali.
Originale è anche il nome della testata, sembra quasi una provocazione.
È stata una felice intuizione di un bravo collega, Stefano Lorenzetto. Io avevo qualche dubbio perché mi ricordava La Pravda (in italiano verità, ndr), ma alla fine l’ho ascoltato e ho fatto bene. È un nome chiaro, netto e deciso, e soprattutto, a differenza di altri, descrive un programma e contiene già una promessa: non siamo condizionabili. Non difendiamo gli interessi di un editore imprenditore. Non adeguiamo l’informazione a chi è al potere.
Che poi sono alcune delle accuse lanciate di recente, con pesanti invettive, contro il mondo dell’informazione. Certo, la vostra struttura societaria vi aiuta.
All’inizio ho cercato di radunare un gruppo di amici imprenditori che ci sostenessero con tante piccole partecipazioni, senza che nessuno avesse il controllo della testata, alla fine mi sono ritrovato ad essere io l’azionista di maggioranza e forse è stata la soluzione migliore. Perché mi ha consentito di garantire alla redazione tutta l’indipendenza necessaria.
E, non contento, pochi mesi fa ti sei lanciato in una nuova avventura con Panorama
Sai qual è la cosa più bella? Ricevere le lettere di tanti abbonati che erano sul punto di disdettare l’abbonamento e hanno cambiato idea. E anche in edicola stiamo crescendo dal 20% fino al 30% ogni numero. Io Panorama l’avevo diretto dieci anni fa, quando i settimanali erano ancora importanti e raccoglievano tanta pubblicità. Ora è cambiato tutto, ma ho deciso di scommetterci di nuovo.
Un settimanale è una sfida anche più complessa del quotidiano.
Sì, ma alla fine, poi, il nostro mestiere è sempre quello: suscitare interesse nel lettore. Se con un quotidiano stai più sulla notizia, con un settimanale devi concentrarti sulle inchieste, sui servizi, sugli approfondimenti, tirando fuori argomenti di cui non si parla, variando l’offerta in modo che attiri e incuriosisca. Dobbiamo essere innovativi e mai scontati.
Mentre i giornali, hai detto, sono rimasti al ’900.
Anche la loro struttura è antiquata. Quando nacque La Verità, una delle mie prime decisioni fu abolire le sezioni: politica, cronaca, esteri, per non rinchiudere l’informazione dentro gabbie precostituite, che devi riempire anche quando non c’è notizia. Poi c’è una questione di sostenibilità. Perché assumere decine di persone per scrivere di sport che interessa due giorni o uno alla settimana? Ed è così per ogni argomento. Ci sono giornali che hanno oltre 100 redattori, noi sì e no dieci.
Torniamo lì, essere direttore e, al contempo, editore ha creato un circolo virtuoso.
Quando ho deciso di fondare La Verità sapevo che i giornali sono aziende come tutte le altre. Hanno dei clienti, dei costi fissi e devono avere un equilibrio di bilancio. Se non ce l’hai, puoi essere il giornale più bello del mondo, prima o poi chiudi. L’alternativa è attuare dolorose ristrutturazioni. Sì, sono finiti i tempi in cui la pubblicità pagava qualsiasi cosa. Oggi la realtà è un’altra, e l’editoria, soprattutto italiana, ha costi fuori controllo. Occorre che i giornalisti accettino di essere pagati normalmente, abbandonino la mentalità conservatrice che anni fa li portò addirittura a condurre vertenze contro l’introduzione dei computer. Ecco, noi ci definiamo professionisti indipendenti ma in realtà non lo siamo, pretendiamo un contratto e tutele di cui sono privi avvocati, architetti, liberi professionisti.
Occorre più intraprendenza?
Ogni tanto viene da me qualche giovane che vuole avviarsi al giornalismo. Gli spiego che il nostro mondo è cambiato, lo invito a leggere, tenersi informato, cercare un argomento da approfondire, muoversi e scrivere un bel servizio. Se si presenta a un direttore con un servizio ben fatto, che i suoi giornalisti non hanno, lui glielo pubblica. E se prosegue così, può diventare presto un collaboratore. Nessuno è tornato. Eppure il futuro del giornalismo è questo: redazioni composte da un piccolo nucleo e bravi professionisti esterni pronti a scommettere sul loro futuro.
Un futuro con meno certezze, ma ricco di stimoli.
Sì, perché questo mestiere ti of re un arricchimento continuo, trasversale, ma è fatto di curiosità e non del tesserino che si porta in tasca o della scrivania conquistata. Dobbiamo fare domande, capire, essere vivaci e pronti a cambiare. Rappresentiamo la società e la società cambia continuamente.
Testimoniando questa evoluzione…
Ti racconto un piccolo episodio. Una sera telefono a un ristoratore per prenotare una cena e iniziamo a conversare. Mi dice che il delivery è diventato un fenomeno con un giro d’affari imponente e in continua crescita. Mi racconta addirittura che negli Stati Uniti ormai si progettano appartamenti senza cucina. Lui parlava e io prendevo appunti per quello che sarebbe diventato un servizio su Panorama.
Insomma, approfondire, capire, spiegare…
E ti posso assicurare che c’è sempre terreno da dissodare. Prendi il tema della legittima difesa. Sembrava si fosse detto tutto. Con Panorama siamo andati a vedere cosa accade a chi, reagendo a un’aggressione, uccide o ferisce un rapinatore. Poniamo sia processato e prosciolto. Tutto bene, la giustizia ha fatto il suo corso. Ma quanto è costata l’intera vicenda a chi, alla f ne, viene riconosciuto innocente e vittima? Mesi e anni di afflizioni giudiziarie e decine di migliaia di euro di spese legali che nessuno gli rimborserà.
Tornando a La Verità, all’inizio avete rinunciato a una versione digitale. Perché?
Sì, solo dopo un anno e mezzo abbiamo creato la versione online, costruendola con un concetto diverso: noi non ti regaliamo la nostra informazione, che invece è a pagamento e prof lata sui nostri lettori, una community che ci ha scelto come punto credibile di riferimento. Abbiamo rifiutato quel modello di business che punta a offrire l’informazione gratis pensando che la pubblicità possa ripagarla. Non funziona.
Anche perché sul web l’informazione, più o meno buona, la trovi ovunque, e gratis.
Addirittura puoi essere informato senza visitare un sito ma attingendo solo da Twitter. Sui social io seguo i prof li dei giornalisti più accreditati e influenti, e lì in poco tempo ho già tutto, in diretta, senza neanche più le agenzie.
Fingiamo tu sia un medico e l’Italia la tua paziente. È malata?
Qual è la tua diagnosi? Il Paese non sta bene, ha la febbre ed è appesantito da sovrastrutture che gli impediscono di sfruttare le sue straordinarie capacità. Abbiamo imprenditori, come i viticoltori, la cui attività è sottoposta al controllo di 36 enti diversi, altri che vedono bloccati i lavori per lunghi accertamenti di un fisco che altrove, come in Gran Bretagna, concorda l’appuntamento per i suoi rilievi, in due giorni fa tutto, e poi, addirittura, chiede un giudizio sul lavoro svolto. Abbiamo complicato la vita delle aziende, che sono il cuore dell’economia del Paese. Se non hai un cuore che pompa sangue in tutto il corpo non vai da nessuna parte.
Quindi, la terapia?
Bisognerebbe prendere la nostra legislazione, buttarla via, e sceglierne una qualsiasi: francese, tedesca, inglese. Una legislazione semplice e pragmatica. Perché qui servono centinaia di pagine per guidarti nella dichiarazione dei redditi, e in Svizzera ne bastano dieci? Perché dopo aver approvato una legge da noi occorre un decreto attuativo e poi, ancora, una direttiva che ne interpreti i contenuti?
Patologie croniche…
Sì, la situazione si trascina da decenni, aggravata da una classe politica che non è stata mai capace di prendere decisioni adeguate, preferendo rinviare, con ricadute negative sulle infrastrutture e sull’economia. Attribuire oggi responsabilità a questo Governo, come qualcuno fa, è fingere scarsa memoria.

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