In cover e all'interno, alcuni ragazzi del progetto NonUnoMeno

C’era una volta (e c’è ancora) una cooperativa sociale impegnata a offrire una chance e una prospettiva a ragazze e ragazzi con disabilità. Già nel nome, NonUnoMeno, è racchiuso l’obiettivo dell’inclusione, che si realizza attraverso una social experience fatta di bar e ristoranti, fiorita dalla collaborazione tra la cooperativa Jobel, l’Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale (Anfass), gli istituti alberghieri di Alassio e Finalborgo (SV), i comuni del comprensorio, i servizi di inserimento lavorativo disabili e il Centro di salute mentale di Albenga.

Il sogno inizia nel 2013, quando il Comune alassino offre a Jobel la gestione del bar e della biblioteca nel centro cittadino. «Un modo per creare un format che permettesse la collocazione di giovani con vari tipi di disabilità, sia fisica che mentale», spiega Andrea Varaldo, coordinatore dell’area inserimenti lavorativi in ambito turistico della cooperativa.

Immagine di alcuni ragazzi del progetto NonUnoMeno

La sua voce non nasconde l’emozione di una favola che è continuata, tre anni più tardi, con un ulteriore sviluppo a Finalborgo e Albenga, grazie alla collaborazione con strutture di ristorazione all’interno di un parco e, infine, con l’apertura del ristorante U Levantin nel centro storico di Laigueglia, sempre nel Savonese.

 

L’osteria sociale, dove i piatti forti sono i manicaretti della cucina levantina regionale, come suggerisce il nome del locale, diventa un piccolo caso e staziona spesso nei primi posti delle classifiche su Tripadvisor. «Qui convergono le ragazze e i ragazzi che si sono fatti le ossa lavorando nei bar di NonUnoMeno», precisa Andrea.

 

Le cose vanno benissimo, anzi, a gonfie vele: il progetto funziona dal punto di vista economico e sostiene lo sviluppo sociale dei giovani coinvolti. «Abbiamo visto persone autistiche, che non riuscivano neanche ad attraversare la strada, ritrovarsi, col tempo, in pieno agosto, a gestire una sala ad altissima frequenza turistica. Alla base, c’è la volontà di andare per gradi: il bar di Alassio è una sorta di laboratorio. Mentre nel bistrot del Chiostro di Santa Caterina a Finalborgo si servono aperitivi serali e si organizzano matrimoni. Ogni ragazzo segue un percorso personalizzato, se nel social café alassino sono aiutati da un’educatrice, nelle altre strutture due psicologhe coordinano le attività in sinergia con gli enti territoriali».

 

Come in ogni fiaba, però, c’è qualcuno che trama alle spalle dei valorosi che mettono in campo impegno, professionalità e competenze. Il villain di questa storia è il Covid-19, il virus che ha messo il mondo ko. Varaldo ammette che la pandemia è stata «un muro sul quale i ragazzi hanno sbattuto la faccia ad alta velocità. Il contraccolpo si è sentito forte, ma fortunatamente con l’aiuto di educatori e psicologi non sono mai stati lasciati soli e li abbiamo reinseriti non appena possibile. Per alcuni è stato come tornare indietro di un bel po’, per altri quasi come ricominciare da zero». A questo si aggiunge che U Levantin ha dovuto chiudere i battenti: «Purtroppo non ha avuto la possibilità di allestire uno spazio esterno come richiesto dalle norme anti Covid-19. E i dipendenti sono stati dirottati su Finalborgo e altri progetti».


Anche se la storia sembra non avere un lieto fine, in realtà ce l’ha. Questa volta non ci sono principi azzurri o fantastici maghi, ma la meravigliosa forza di volontà delle persone che hanno visto crescere questi ragazzi, credendo in loro e decidendo di puntare, ancora una volta, su un azzardo: «Abbiamo un immobile ad Andora dove speriamo, entro l’anno, di aprire un ristorante con una grande area esterna. In autunno le attività continueranno, per fortuna i locali stanno andando bene e i dipendenti si sono integrati nel contesto sociale anche grazie a eventi culturali e mostre. Abbiamo lavorato anche in periodi problematici dal punto di vista turistico, ma la cosa più importante è che siamo riusciti a far ripartire i ragazzi», conclude Andrea. E finché c’è questa voglia di farcela e di dare speranza, ci sarà sempre un «e vissero felici e contenti».

Articolo tratto da La Freccia