In apertura, Anish Kapoor Mirror (2018) e Vertigo (2006)

Foto di Ela Bialkowska - OKNO studio

L’invito è esplicito: esplorare il territorio dell’inverosimile, superare i confini della consueta percezione, abbandonarsi ad altri sensi. È evidente fin dalla prima sala, dove Svayambhu, un grosso blocco di cera color vinaccia, invade lo spazio spostandosi lentamente su un binario, sporca gli stipiti in pietra serena dei varchi rinascimentali, sbarra la vista e ribalta la conoscenza del luogo. Anish Kapoor irrompe letteralmente nelle sale di Palazzo Strozzi, stravolgendone le architetture, intervenendo, frammentando e ripensando estensioni e superfici della signorile costruzione quattrocentesca. È stato proprio il celebre maestro anglo-indiano, che ha rielaborato l’idea di scultura nell’arte contemporanea, a ideare e realizzare, insieme al curatore Arturo Galansino, la monografica visitabile a Firenze fino al prossimo 4 febbraio.

 

Anish Kapoor. Untrue Unreal è un susseguirsi di installazioni giganti che lasciano il passo ad ambienti più intimi, forme conturbanti dai colori eccentrici o carnali, volumi assorbenti e i famosi specchi illusori. Il confronto tra le geometrie alternative di Kapoor e quelle rinascimentali fatte di linee, semi capitelli e pietra serena è serrato, quasi una sfida fuori dal tempo e dallo spazio.

Anish Kapoor To Reflect an Intimate Part of the Red (1981)

Anish Kapoor, To Reflect an Intimate Part of the Red (1981) - Foto di Ela Bialkowska - OKNO studio

Così, attraverso opere storiche e recenti come quella site-specific e immersiva Void Pavilion VII, gli spazi interni e quelli del cortile diventano versatili e discordanti, vengono stravolti e riabitati. Palazzo Strozzi si trasforma in un luogo concavo e convesso, intatto e frantumato, liscio e riflettente. Nell’arte di Kapoor, l’irreale (unreal) si amalgama con l'inverosimile (untrue), alterando o negando l’ordinaria percezione della realtà. E proponendo l’esplorazione di un mondo in cui il vero e il falso, l’oggetto e il soggetto si susseguono senza capire dove finisce l’uno e inizia l’altro.

Così in Vertigo, Mirror o Newborn, le sculture specchianti presenti in mostra, lo spazio, gli oggetti e le persone che vi si riflettono assumono dimensioni illusorie e tridimensionali in cui il reale viene ridotto, allungato, ingigantito o moltiplicato. Attingendo a materiali vari e variabili, come cere, pigmenti, pietre, acciai o siliconi che l’artista mescola, impasta, scolpisce, leviga e riempie, Kapoor trasforma l’opera in mediatrice e interprete del circostante.

Anish Kapoor Void Pavilion VII (2023)

Anish Kapoor, Void Pavilion VII (2023) - Foto di Ela Bialkowska - OKNO studio

Gli oggetti non sono mai a sé stanti ma assorbono, ingoiano e riflettono tutto ciò che accade intorno a loro: luoghi, movimenti, forme. Esemplari sono le cosiddette opere nere come Non-Object Black o Dark Brutal, realizzate con un materiale sperimentale derivato dal carbonio e capace di assorbire oltre il 99,9% di luce, rendendo invisibili i contorni del manufatto che viene messo in discussione nella sua tangibilità e tridimensione. Anche il colore non è semplicemente cromia e tonalità ma diventa volume, creazione. In To Reflect an Intimate Part of the Red le piccole sculture dalle forme astratte abbagliano e si rendono corpi magnetici proprio per i forti pigmenti giallo limone e rosso acceso. Il colore supera la forma, lo spazio e la sagoma facendosi arte esso stesso. Mette in discussioni i sensi: quando è assoluto come il nero ingoia, diventa cunicolo profondo e prospettiva, quando è brillante o saturo si fa alieno rispetto all’ambiente. «Quando si realizza un oggetto e lo si riveste di pigmento, quest’ultimo cade a terra creando un alone intorno all’oggetto stesso», ha sottolineato l’artista. «Possiamo quindi paragonarlo a un iceberg: la maggior parte è nascosta, invisibile. E così mi sono interessato sempre di più all’oggetto invisibile. Una parte sporgeva nel mondo, ma era il resto a essere veramente interessante».

Ascolta il podcast "Viaggi ad Arte" a cura di Federica Gheno

Le creazioni di Kapoor suscitano stupore, talvolta inaspettata inquietudine, sempre sollecitano a oltrepassare le apparenze del visibile per abbracciare la complessità del tangibile. In una delle ultime sale del percorso espositivo sono raggruppate le produzioni in cui l’artista concentra, manipolando e assemblando siliconi e colori rosso sangue, l’ossessivo interesse per la carne e la materia organica. Alle pareti First Milk, Tongue Memory o Today You Will Be in Paradise, amalgami di vari materiali che rappresentano interni di viscere e organi tanto materici, irrorati di rosso e così vividi che paiono pulsare, provocando allo stesso tempo nello spettatore disgusto e attrazione morbosa. «Uso molto il rosso. È vero che nella cultura indiana è qualcosa di potente; è il colore della sposa; si associa al matriarcale, che nella psicologia indiana è centrale». In Kapoor, poi, la dualità, l’antitesi o l’unione tra elementi contrapposti sono sempre presenti, come metafora della materia e dello spirito, del corpo e della mente, della natura e dell’artefatto. Una sfida a cercare il vero di chi guarda, un impossibile praticabile.

Articolo tratto da La Freccia novembre 2023