Non è un’attività qualsiasi entrare in un parco di scultura contemporanea come quello di Banca Ifis a Mestre, nell’area verde che circonda la storica Villa Fürstenberg, sede direzionale dell’istituto. Qui, nell’agosto 1849, il generale dell’esercito austriaco Josef Radetzky firmò il trattato della dolorosa resa di Venezia «non per armi ma per fame e pestilenza domata». Entrarci vuol dire mettersi in contatto con la propria dimensione spirituale e di crescita interiore, relazionarsi con l’altro e dargli (o darle) ospitalità dentro di noi. Vuol dire saper ascoltare i fruscii della natura e le melodie della fauna indigena, specchiarsi in una scultura, in un intreccio di relazioni tra esseri viventi, ambiente naturale e artificiale.

 

Questo parco, voluto e inaugurato il 28 settembre dal presidente di Banca Ifis, Ernesto Fürstenberg Fassio, avvicina i confini tra il mondo della natura e quello dell’arte. Qui ordine e pace si ricompongono su un variopinto palcoscenico di alberi, arbusti e fiori

scritturati come attori inconsapevoli. Mentre le sculture si rivelano dispensatrici

di narrazioni imprevedibili, insegnamenti e riflessioni inaspettate che ambiscono a lasciare una traccia, a installarsi nel teatro della mente e della memoria, nei fragili legami con l’infanzia e con le proprie lontane radici, nel nostro immaginario di miti e leggende, plasmando emozioni. Quella del giardino è una tradizionale allegoria di un desiderio utopico, presente fin dall’antichità, che è riflesso e traduzione dell’Eden, dell’aspirazione originaria dell’umanità a una vita naturale, nostalgico rimpianto della mitica Età dell’oro, del Paradiso perduto.

 

Oggi, invece, non può che essere espressione di una coscienza etica ed estetica diversa, di un’utopia che vuole divenire reale. Nel parco di Villa Fürstenberg le sculture non sono solo da ammirare ma da vivere, collocate in uno spazio-tempo in cui gli artisti danno forma concreta, nella pietra o nel metallo, alla riscrittura dell’immaginario, alla dilatazione della prospettiva della visione.

Appena entrato vengo colpito da due opere in bronzo di Igor Mitoraj, Ikaria (1996) e Ikaro alato (2000). La lettura del mito – Icaro, figlio dell’inventore Dedalo, ignora i moniti paterni e quando si alza in volo con le ali di piume e cera fabbricate dal genitore, ebbro dell’ascesa, si avvicina troppo al sole, fa sciogliere le ali, precipita e muore – ha ispirato lo scultore polacco che ha scelto di raffigurare il giovane prima del suo leggendario quanto fatale volo, per farne leggere l’eroismo piuttosto che la superbia. Una metafora senza tempo dell’umanità che vuole sfidare i limiti della natura ma viene punita per la sua arroganza.

 

Inconfondibile la firma del pistoiese Roberto Barni nell’opera Continuo, del 1999: due figure in bronzo che si fronteggiano mentre sembrano scendere e salire, allo stesso tempo, da una scala a pioli ricurva. È la sua umanità viandante riassunta nel passo di marcia di due uomini in abito cittadino con il volto senza emozioni visibili, che assomigliano a tutti e a nessuno, come se avessero perso il privilegio di possedere un’individualità. Lo scultore toscano riesce così a dare forma e senso plastico alla deriva dell’umano nell’era della globalizzazione, in difesa del libero arbitrio, questione ancora più centrale oggi di fronte a un mondo predittivo e algoritmico.

 

Nel prato punteggiato da vari esemplari arborei di pregio, a volte riuniti in gradevoli composizioni di diverse essenze, altre isolati come nel caso della giovane quercia da sughero, quasi in posizione centrale accanto a una folta macchia di bassi ginepri, rimango abbagliato dalla Clio Dorada (2017) di Manolo Valdés. I suoi riflessi preziosi

di ottone e acciaio inossidabile brillano generando una nube di luce sia di giorno, con la complicità del sole, sia di notte grazie all’innovativa illuminazione progettata dal lighting designer Alberto Pasetti. È un ritratto femminile concepito dall’artista spagnolo non per fornire l’ennesima immagine della bellezza naturale, ma per offrire un’interpretazione del mondo e invogliare chi guarda a comporre ipotesi alternative.

Valdés riesce a dimostrare come la bellezza sia qualcosa che risiede oltre i canoni estetici. Un’essenza originaria che nasce dal profondo e si può rinvenire anche nella cosa più piccola e insignificante sotto gli occhi di tutti. In questo senso è un’esperienza totalizzante così forte da influenzare scelte e percorsi di vita. Più avanti l’artista sudcoreano Park Eun Sun mi accoglie, invece, con una sua tipica struttura nodulare e corpuscolare, atomico-cellulare: Continuazione-Duplicazione, del 2021. Lo scultore esprime così, nel granito rosso e giallo, un desiderio di verticalità ascensionale rivelando la sua aspirazione ad alzarsi verso la luce.

 

Come gli alberi del parco, le sue sculture rappresentano l’elemento di congiunzione tra il mondo sotterraneo (le radici), quello emerso (il tronco) e la dimensione celeste (la chioma che si apre verso l’alto), in un amalgama originale di allegorie che fa da ponte tra Oriente e Occidente. Rappresentazione dell’eterno ritorno e del continuo rigenerarsi della vita è anche la coloratissima Bronze Stack 9, Viridian Green ( 2022) di Annie Morris che rappresenta un viaggio tra suggestioni metaforiche, sacre e profane. La sua scultura in bronzo patinato e acciaio raffigura sfere colorate impilate e allude alla partecipazione di tutti i livelli del cosmo e della creazione a un’unica vita, alla struttura ordinata della natura che coincide con l’intero universo, archetipo di ogni azione creativa e del ciclo dell’esistenza: nascita, morte, rinascita. In questo senso, l’artista inglese concepisce l’opera come una manifestazione della grandezza dell’animo umano, dell’elevazione spirituale verso Dio. Sono tante le sculture che abitano il parco di Banca Ifis a Mestre e ognuna porta con sé storie, memorie e visioni pronte a raccontarsi e rivelarsi. Un’esperienza da provare e consigliare.