In apertura Fabio Insenga, direttore di Fortune Italia. Foto di Roberta Krasnig

Ha due anni di vita, in Italia. Novanta negli Stati Uniti, dove la testata Fortune è nata all’indomani del famoso crollo di Wall Street e, negli anni, è diventata sinonimo di competenza, indipendenza e qualità. Un faro nel mondo del business, della finanza e dell’imprenditoria, con i suoi celebri ranking che certificano il prestigio e il successo di aziende e manager di tutto il globo. Fortune, la casa madre di oltreoceano, ha concesso licenze e uso del proprio marchio all’estero con grande parsimonia e oculatezza. Il via libera alle pubblicazioni, per l’editore italiano, è arrivato dopo una lunga formazione ed è stato accompagnato, nei primi mesi, da uno strettissimo controllo che si è poi piano piano allentato per dare spazio a feconde sinergie. A parlarcene è Fabio Insenga, 45 anni, romano, a Fortune Italia fin dal lancio del progetto, prima come caporedattore e poi, dall’agosto2018, come direttore responsabile. Alle spalle 15anni all’Adnkronos, otto dei quali da capo della redazione economica, oltre a varie collaborazioni con Il Messaggero, Il Tempo e Il Riformista.

Com’è lavorare con gli americani?
Il giornalismo italiano in generale ha tanto da imparare da quello di matrice anglosassone, estremamente rigoroso e severo con se stesso, capace di mettersi sempre in discussione, di riconoscere e ragionare su presunti errori, trasparente e mai accondiscendente con l’interlocutore. Però anche loro hanno molto da imparare da noi, dalla nostra creatività ed elasticità che, oltre a mitigare certi eccessi di rigidità e schematismo, diventa essenziale per affrontare situazioni imprevedibili come quella determinata dall’esplosione della pandemia, che ti costringe a modificare in extremis un timone già pronto e studiato a lungo.

Fortune Italia si può definire a tutti gli effetti la start up di un franchising di successo in un settore però in crisi, quale quello dell’editoria e dell’informazione. È così?
Sì, importare il modello Fortune in Italia, per noi che siamo nati come una vera e propria start up, costruendo da zero la redazione e tutta la struttura che si muove oggi intorno al marchio, ha significato cercare un nostro spazio in un mercato ben presidiato da altre testate storiche e in un periodo certo non facile. Però le indagini preliminari di mercato ci portavano a ritenere che uno spazio l’avremmo trovato.

E ci siete riusciti?
Direi di sì. I numeri ci confortano, con 30mila copie del magazine mensile distribuite dove la nostra licenza ce lo consente: Italia, Svizzera, Principato di Monaco, San Marino, e Città del Vaticano, e visite al nostro sito che tra il 10marzo e il 10 aprile hanno toccato il milione di page view. Ma a funzionare è il sistema nel suo complesso, che mette insieme carta, digitale, social, eventi, oggi realizzati un po’come tutti sulle piattaforme digitali. E poi i ranking, che sono un punto di riferimento assoluto nella metrica di valutazione delle imprese e dei manager, come la famosa Fortune 500, la classifica delle prime 500 aziende americane per fatturato.

Quale la chiave?
L’operazione è stata quella di importare un modello di giornalismo che si fonda essenzialmente sull’autorevolezza del proprio brand. Questo è il tratto distintivo di Fortune negli Stati Uniti e nella comunità finanziaria e manageriale internazionale. La qualità del giornalismo è la chiave per poter accedere a un’audience sempre più ampia e specializzata.

Sempre, però, un target ben delineato e delimitato. Ma sbarcando anche sui social vi trovate a confrontarvi con una platea ben più estesa che forse non vi cerca ma vi trova e interagisce...
Sì, negli ultimi tempi la proporzione tra chi interagisce con insulti o considerazioni da bar e chi cerca un confronto rispettoso e per meglio comprendere i contenuti è però cambiata, a favore di questi ultimi. Comunque si tratta di un mondo, quello dei social, che va trattato con attenzione, l’errore del giornalismo è stato sottovalutarne l’importanza. L’accesso alle informazioni oggi si è allargato. Fino a qualche anno fa il giornalista era una sorta di alieno, ormai non più, e le notizie non devi cercarle, ti raggiungono sullo smartphone. Quindi è importante mettere insieme contenuti corretti e di qualità esposti con chiarezza di linguaggio, offrendo accessibilità e ampia fruibilità dell’informazione. 

È vero, sembra che la pandemia abbia modificato, mi auguro non solo temporaneamente, il rapporto con il mondo dell’informazione. L’autorevolezza, cos’è e come la si ottiene?
È frutto di un’attenzione quasi maniacale a tutto quello che è la verifica delle fonti, del reporting e soprattutto del rapporto che c’è fra giornalismo e comunicazione d’impresa, fra la notizia e il contenuto veicolato dalle aziende.

E qui la questione si fa delicata, quando le aziende di cui parli sono anche quelle che ti acquistano pagine pubblicitarie e, quindi, ti sostengono finanziariamente.
Potrei essere tacciato di romanticismo, ma se Fortune ha successo nel mondo è perché può aiutare il business a crescere. Che non vuol dire compiacere l’impresa e celebrare il businessman, cosa che potrà avere un ritorno immediato ma si perde poi nel tempo. Aiutare il business a crescere significa, nella loro ottica, raccontare, stimolare, criticare lì dove ci sono errori e incongruenze. Perché essere su Fortune è già un traguardo che ti conferisce uno status. Ti rende utile al resto della comunità del business, per capire un trend o intuire la soluzione di un problema.

E tu speri che anche l’imprenditoria italiana lo capisca e accetti di investire restando indifferente ai contenuti che una testata produce su di lei?

Difficile, ma gioverebbe. Una delle interviste più importanti di Fortune negli Stati Uniti nell’ultimo anno è stata quella al global managing partner di McKinsey, Kevin Sneader, dopo che il New York Times aveva messo in discussione la trasparenza di alcune pratiche della società nel mondo. È stata un’intervista che ha messo in difficoltà l’interlocutore, lo ha costretto a una serie di ammissioni e ha fatto emergere alcuni problemi da risolvere. Eppure McKinsey è un partner storico di Fortune. Una contraddizione? No. Quell’intervista è stata poi utilizzata positivamente in termini di comunicazione d’impresa quale esempio di trasparenza e capacità dimettersi in discussione. Molto meglio di un’intervista concordata e celebrativa.

Fenomeno che non è una costante del nostro giornalismo, ma lo è, forse, nella percezione di coloro, e non sono pochi, che vanno alla ricerca della cosiddetta informazione disintermediata, ritenendola scevra da condizionamenti e interessi distorsivi. Un’altra delle ragioni di crisi del settore.
Sono d’accordo. Si è persa un po’ nel tempo la forza della stampa come soggetto terzo, anche se per fortuna sono ancora tante le testate autorevoli in Italia che producono contenuti indipendenti. Però la crisi dell’editoria e la perdita di potere contrattuale del giornalismo nel corso degli ultimi 15 anni si devono anche all’assenza di forti capacità manageriali nel settore. 

Spiegati meglio.
La trasformazione digitale, la globalizzazione e tutti i mega trend che conosciamo stanno avendo un impatto dirompente in tanti settori, incluso il nostro, ma si potevano e dovevano prevedere e gestire, non soltanto subire. Ecco,nel settore dell’editoria, secondo me, questo non è accaduto soprattutto per l’assenza di un management con una visione strategica capace di conciliare il conto economico di un’impresa con adeguati investimenti sulla qualità del giornalismo.

I giornalisti non hanno colpe?
Per anni è passato il messaggio che fosse il giornalismo, inteso come casta, a fare resistenza al cambiamento. Posso assicurarti che da quando faccio questo mestiere, sono ormai 25 anni, ho visto sempre una risposta più pronta da parte dei giornalisti, al netto di qualche resistenza fisiologica iniziale, a sperimentare tutto quello che la tecnologia propone, rispetto alla reazione delle aziende. Il bilancio di un’impresa editoriale, fatte salve strutture efficienti e costi adeguati, non può dipendere, quanto a entrate, quasi esclusivamente da pubblicità o finanziamenti pubblici. Devi essere capace di produrre contenuti di qualità e saperli monetizzare facendoteli pagare. Con una strategia appropriata e sapendo da tempo che la carta avrebbe perso copie e terreno rispetto al digitale.

Hai parlato di costi. Una start up ha bisogno di tenerli molto sotto controllo. In che modo la contrazione dei costi si concilia con la qualità?
La nostra redazione è piuttosto snella, e giovane. Ho quattro redattori a tempo pieno e un caporedattore. Intorno a questo piccolo nucleo, solido ma agile, che lavora sul sito e sul magazine, c’è una rete di collaboratori con grande esperienza e professionalità che non sono un accessorio esterno ma hanno un valore importantissimo. Certo, sarebbe più facile lavorare con una redazione più ampia e strutturata ma è evidente che uno dei problemi delle testate giornalistiche, in passato, è stato aver fatto crescere gli organici in una misura non coerente con le dinamiche di mercato. Un mercato che progressivamente ha penalizzato l’editoria tradizionale riducendone i ricavi. Questo ha reso indispensabile una trasformazione di tutto il sistema editoriale che oggi spazia, come ho detto, dal magazine agli eventi passando per il digitale, per creare contenuti che durino nel tempo.

Che vuol dire?
Che attraverso il mensile, non costretto a dipendere dalla stretta attualità come il sito internet, sviluppi un livello di approfondimento tale da trasferire poi alcuni temi e concetti in veri e propri percorsi di comunicazione, in contenuti che non si esauriscono nel singolo prodotto giornalistico: articolo, intervista o inchiesta che sia. Insomma, filoni di approfondimento che ci consentono, intorno al marchio Fortune, negli Stati Uniti come in Italia, di creare una community di lettori, ascoltatori e addetti ai lavori fidelizzati. 

Torniamo alla stretta attualità. La pandemia sembra aver fatto riacquistare al giornalismo tradizionale un po’ di quella stima e credibilità perduta. È tornato in auge il ruolo del mediatore e dell’esperto. Semmai adesso rischiamo l’inflazione e l’effetto boomerang, soprattutto quando gli esperti ci forniscono risposte contraddittorie.
Sì, l’esperienza del coronavirus, oltre a produrre un’accelerazione di tanti processi interni alle redazioni per mettere in condizione i giornalisti di lavorare in un periodo così complicato, ha responsabilizzato ancora di più l’intero settore, per una volta sia i giornalisti sia gli editori. È cambiato il modo di porsi e di fruire le informazioni da parte degli utenti, per l’esigenza di informarsi rispetto a qualcosa che non si comprende e di cui si ha paura. Ora questo ritrovato ruolo del giornalismo è una circostanza che va saputa capitalizzare.

Come?
Mantenendo da parte nostra la ritrovata o accresciuta attenzione nella verifica di fonti e dati per riacquisire in pieno quel ruolo di certificatori di ciò che accade. Ma, soprattutto, non dilapidando la crescita dell’audience ed evitando che gli editori approfittino degli strumenti di gestione della crisi economica per operare tagli indiscriminati.

Mantenere l’audience. Hai molta stima negli utenti, ma la pandemia non ha fatto sparire del tutto i terrapiattisti, i novax e i complottisti vari.
Sì, ma al di là di una certa quota fisiologica di irrecuperabili, c’è stata una presa di coscienza di un’ampia fascia di popolazione recuperabile, che ha interesse a essere informata, che magari aveva perso l’abitudine a comprare il giornale o a fruire di un contenuto certificato prodotto da una testata riconosciuta. È lì che si gioca il futuro, sia in termini di copie vendute che di informazione digitale, nel recuperare quel rapporto fra la testata giornalistica e i lettori. 

Anche con l’interazione che, nell’epoca del digitale, è forse la frontiera più interessante e fertile.
Sì, che è cresciuta come qualità e che sul sito stiamo stimolando, offrendo spazio alle opinioni e alle analisi di ospiti per alimentare il dibattito e un confronto.

Immagino che il post Covid sia uno dei temi centrali.
Su questo abbiamo lanciato il progetto di Fortune Italia Ricostruzione, per riflettere sull’uscita dall’emergenza e sulla ripartenza in tutti i settori di cui ci occupiamo. E abbiamo costruito alcuni nostri percorsi tematici di approfondimento e realizzato oltre 40 interviste singole oltre a una decina di e-meeting su argomenti specifici quali mobilità, energia, finanza.

In sintesi estrema, da un’informazione somministrata a una sempre più interattiva e partecipata.