MUSEO CHIUSO  IN OTTEMPERANZA ALLE INDICAZIONI DELLE AUTORITÀ IN MATERIA DI PREVENZIONE DEL CORONAVIRUS

 

Otto tonnellate di bronzo e quasi 700 anni carichi di storia, narrazioni, stili e aneddoti. Quella Sud, tra le tre Porte del Battistero di Firenze, è forse la meno nota, dopo la più famosa e aurea del Paradiso del Ghiberti e la Nord che dette avvio alla stagione del Rinascimento. Eppure a leggerla bene nasconde un microcosmo capace di tenere insieme Giotto alla Parigi del tempo, le geometrie dei grandi cicli d’affreschi alle moderne forme del Gotico. Un gigante di bronzo e oro alto quasi cinque metri, tornato a splendere dopo tre anni di restauro e andato ad affiancare le altre due Porte al Museo fiorentino dell’Opera del Duomo. Un unicum ammirarle l’una accanto all’altra nella sala del Paradiso, con le dorature originali riemerse grazie ai restauri eseguiti dall’Opificio delle Pietre Dure, dal ’78 a oggi.

 

Come spesso accade a Firenze, la più antica delle Porte nacque in un clima di competizione. «Dopo l’oro e l’argento, il bronzo era la materia più nobile e costosa con cui realizzare elementi monumentali», racconta Timothy Verdon, direttore del Museo dell’Opera di Santa Maria del Fiore. «In Sicilia, in Italia meridionale, a Venezia e Verona c’erano opere del genere, ma l’unica chiesa ad averne una era la cattedrale di Pisa, dove si ammira ancora quella di Bonanno Pisano del XII secolo». Fu commissionata dall’Arte di Calimala, la corporazione del commercio internazionale di stoffe pregiate per sfidare l’antica rivale pisana e primeggiare sugli altri mestieri fiorentini. Doveva essere un’impresa all’avanguardia e i ricchi mercanti per la complessa fusione dell’intelaiatura si rivolsero a esperti fonditori veneziani. Nel 1300 l’incarico dell’esecuzione toccò ad Andrea Pisano, che si firmava “de Pisis” ma veniva da Pontedera, nella provincia.

 

Non era la prima scelta dei committenti, che gli preferivano Tino da Camaino, ma il giovane scultore, con doti di orafo e architetto, fu raccomandato proprio da Giotto di Bondone in persona, con il quale gli anni successivi avrebbe collaborato nel cantiere del Campanile. L’influenza di Giotto avviluppa e caratterizza tutta la Porta del Pisano, «nell’impostazione narrativa, nelle composizioni, nella costruzione delle figure e nei drappeggi», sostiene Verdon. Andrea la scolpisce come se fosse un libro, raccontando, in 20 episodi, la vita di Giovanni Battista, patrono della città, dalla predicazione al martirio fino alla morte. E, come un libro, la si legge dall’alto al basso, da sinistra a destra, in un susseguirsi di figure, paesaggi, profili plasmati nel metallo con la perizia del dettaglio.

 

Ogni scena, e qui la grande novità, è racchiusa in una complessa forma che si ripete nelle ante, il quadrilobo. Una cifra geometrica che sovrappone quattro cerchi a un quadrato e che, in prima assoluta, fece il suo debutto nella scultura fiorentina, importata in Italia, come nel resto d’Europa, dalla Francia. Quella caratteristica arte conosciuta come gotica che trae vocazione, almeno in queste linee, dall’esperienza compositiva islamica scoperta durante le Crociate e importata dai francesi entusiasti degli antichi intarsi orientali su legno e marmo. All’inizio del 1300 questo era segno di modernità, avanguardia pura, contemporaneità d’espressione.

 

I committenti ben conoscevano le nuove tendenze d’Oltralpe e volevano con quest’opera simboleggiare la loro forza e internazionalità. La Porta Sud inconsapevolmente racchiude un centenario dialogo fra antico e coevo, Occidente e Oriente, scultura e pittura. Andrea, quando progetta e costruisce, ha davanti agli occhi i cicli pittorici giotteschi alla Cappella Peruzzi in Santa Croce, e in un primo momento fatica ad assecondare le nuove forme curvilinee, preferendo ancora i registri quadrati e rettangolari tipici degli affreschi. Il suo è uno stile solenne, quasi liturgico, in cui le figure appaiono spesso prive di movimenti fluidi e male si adattano alla nuova forma tonda. Nella formella in cui Salomè porge la testa del Battista alla madre, per esempio, il Pisano deve inserire un edificio rettilineo per appoggiarci le figure, proprio alla maniera di Giotto. Ma come in tutte le lunghe creazioni, l’estro si scioglie con la pratica e, nelle cornici finali, riesce a spingersi anche negli spazi sinuosi del quadrilobo con drappeggi voluminosi o, nella Sepoltura, con cupolette e pinnacoli gotici a lambire la volta. Nonostante le iniziali difficoltà, conclude l’impresa in sei anni (Ghiberti ce ne impiegherà 27 per terminare quella del Paradiso) e da allora è ricordato come il maestro delle porte. Nel frattempo tanta storia si è abbattuta sulle tre giganti del Battistero.

 

Durante i bombardamenti della Seconda guerra mondiale furono staccate e nascoste nel Valdarno, in una galleria ferroviaria dismessa. Nulla invece si poté contro la furia dell’acqua e del fango che nel ’66 le travolse in pieno. La Porta Sud subì una ferita profonda ancora visibile sul retro e una delle 48 teste di leone decorative saltò via, perduta per sempre. I restauratori raccontano di aver svelato, durante la pulitura, innumerevoli micro dettagli non visibili a occhio nudo: una piccola farfalla, una lucertola, un ricamo sulle vesti. Come se l’artista avesse avuto l’idea di realizzare qualcosa di magnificente e accurato al di là del terreno, del proprio io o di quello della committenza. Come se fosse stato spronato soprattutto da una visione più grande e sacra, dove l’uomo e l’esecutore scompaiono in onore della bellezza e della fede, proprio come accade nelle preghiere. ll registro narrativo si chiude con le sette virtù teologali e cardinali e, per completare la simmetria delle formelle, disposte in numero pari, il Pisano ci aggiunge l’Umiltà. Forse per ricordare a Firenze, ai fiorentini e a ogni visitatore che per realizzare un capolavoro, al servizio della città quale bene comune o in onore di un dogma, occorre proprio quella virtù. Humana humilitas.