Sono felice di fare questa intervista. Vado spesso a Milano, Firenze, Torino e Napoli. E non conviene prendere l’aereo, il treno non si batte. A bordo riesco pure a lavorare. È una passione che ho sempre avuto, collezionavo addirittura i trenini Marklin». Carlo Verdone si lascia andare a un ricordo personale prima di raccontare alla Freccia il nuovo film da lui diretto e interpretato, Si vive una volta sola, nelle sale dal 26 febbraio. Attore e regista amatissimo dal pubblico, con le sue commedie agrodolci fa sorridere a denti stretti, mostrando tic e manie degli italiani. Chi non ricorda l’ossessivo Furio di Bianco, rosso e Verdone, il coatto Ivano di Viaggi di nozze, il timido Sergio di Borotalco e lo spavaldo Gepy Fuxas di Perdiamoci di vista? Ogni personaggio è legato a un sorriso velato di malinconia. Caratteristica che ha reso Verdone un regista unico e inimitabile. Di Verdone ce n’è uno. Così come inimitabili sono le sue pellicole, che non hanno mai avuto sequel, ai quali si dichiara contrarissimo.

Come mai questa avversione?

C’è il rischio enorme di deludere il pubblico. Il film vero è uno e basta, poi si deve cambiare pagina. I numeri due mi sembrano una furbizia.

Cosa ci dice di Si vive una volta sola?

È arrivato dopo un anno di riunioni che non riuscivano a centrare molto bene l’obiettivo. Il produttore De Laurentiis dimostrava delle perplessità, capivo che c’era qualcosa che riteneva troppo azzardato. Poi ho incontrato Giovanni Veronesi, gli ho parlato dell’idea che avevo e dei dubbi a livello produttivo.

Veronesi che le ha detto?

Mi ha dato uno spunto, molto interessante, che ha portato allo sviluppo del soggetto e della sceneggiatura in tempi rapidi.

Quale storia è uscita fuori?

È un film corale su un’équipe medica formata da Rocco Papaleo, Anna Foglietta, Max Tortora e me. I personaggi sono professionisti di alto livello nel lavoro, ma di bassissimo livello nella vita privata, con solitudini e problemi sentimentali. Si frequentano anche fuori dalla sala operatoria, ma il tempo ha usurato l’amicizia: quasi non si sopportano più, però non possono fare a meno l’uno dell’altro. Poi un fatto traumatico, tra i tanti colpi di scena, permette di ridisegnare l’amicizia e l’affetto con maturità.

Come ha scelto il cast?

Non avevo mai lavorato con nessuno di questi attori. Anna Foglietta mi aveva colpito molto a teatro e nel film drammatico Un giorno all’improvviso. Trovo sia un’attrice meravigliosa, sa destreggiarsi nella commedia come nelle parti drammatiche. È stata perfetta.

E Rocco Papaleo?

È l’anestesista. Il personaggio doveva avere una sua fisionomia e quel ruolo gli calza a pennello.

Manca solo Max Tortora…

Lui mi è sempre piaciuto. Tra le altre cose, prima di iniziare a girare, ho pensato che questo film potesse dare agli interpreti qualcosa di importante dal punto di vista recitativo. La scrittura è stata modificata sulla base delle caratteristiche degli attori. Sono rimasto molto contento, è uno dei migliori cast che ho mai avuto e, dopo le riprese, siamo diventati molto amici.

Protagonista è anche il viaggio. Che valore assume?

Viene utilizzato come distrazione da un problema importante, che riguarda Papaleo. È necessario, perché si crea una situazione particolare che deve essere risolta in un ambiente diverso da quello di vita e di lavoro, e dalle rispettive famiglie.

Dove porta questo viaggio, geograficamente parlando?

Ho optato per la costa della Puglia, la percorriamo da Monopoli in giù, fino a Otranto e Castro. Ci sono location molto belle.

Ha fatto molti film che sono entrati nell’immaginario collettivo italiano, ma bisogna menzionare anche Sono pazzo di Iris Blond, che ha un respiro internazionale.

Infatti è uscito in America, dove ha ricevuto buone critiche. Fu proiettato all’Angelica Theatre di New York. È difficile piazzare i prodotti nostrani, in genere vengono relegati nelle sale d’essai. Noi, al contrario, abbiamo un altro atteggiamento verso le pellicole estere: il coreano Parasite, per esempio, esce in circuiti di prima visione. Forse dipende dal fatto che, sotto sotto, non riusciamo a fare lungometraggi totalmente cosmopoliti come le opere di Fellini o La grande bellezza di Sorrentino. È colpa delle idee e dei soggetti, che forse sono troppo provinciali.

A proposito del film di Sorrentino. Dopo l’Oscar come miglior film straniero, le sono arrivate richieste per interpretare pellicole all’estero?

Sì, negli Usa, ma francamente non erano progetti che mi interessavano.

Che film erano?

Mi hanno pregato di non dirlo, andremmo a toccare sul vivo l’attore che mi ha sostituito.

Mai pensato di fare solo il regista?

Dovrei trovare una storia giusta per attori giovani, dove non ci sia bisogno della mia presenza, ma fino a quando ho l’amore del pubblico continuerò così. È comunque nei miei pensieri. Dopo questo film ne ho in serbo un altro, poi ci sarà il serial Vita da Carlo. Lo dovrebbe distribuire Amazon, ma ancora nulla è definito. Abbiamo presentato il progetto e le prime due puntate, sono molto piaciute.

Con quale attrice vorrebbe lavorare?

Meryl Streep. Per me è un sogno, la stimo tantissimo. Magari un giorno avrò una grande idea in grado di sedurre questa immensa interprete.

Se non ricordo male, l’ha pure baciata…

Veramente mi ha baciato lei! Quando alla Festa del Cinema di Roma sono andato a complimentarmi per la sua carriera, le ho detto che la considero come Jimi Hendrix. Lei si è fatta una risata, mi ha fatto capire che voleva darmi un bacio e io me lo sono preso.

Streep a parte?

Scarlett Johansson. È bravissima, fantastica.

Il comico Ricky Gervais, durante la premiazione dei Golden Globe, ha fatto un monologo politicamente scorretto con l’obiettivo di denun- ciare la difficoltà di far ridere oggi. Che ne pensa?

Bisogna stare attenti a come si dicono certe cose, anche se mi sembra un pensiero a metà strada tra il radical chic e il falso moralismo. L’artista deve avere libertà e la gente dovrebbe mettere meno paletti. Le faccio un esempio: se c’è solo una donna protagonista allora siamo maschilisti. Sarà una moda, ma è anche un po’ stupida. Sicuramente si sta esagerando.

Un film che ha nel cassetto, che le piacerebbe dirigere?

Tempo fa sono andato a salutare la sorella di una persona che conosco, del mio quartiere, che stava morendo. È stato molto toccante. Ci sono anche ritornato, sono stati due giorni meravigliosi. Ho capito che il mio ruolo, come artista, ha una funzione importante, se a ringraziarti è qualcuno che sta lasciando questo mondo. Ci si sente utili, come un antidepressivo senza effetti collaterali. Quindi potrei fare un film sulla malattia, perché no.

Interessante, anche se un po’ rischioso…

Vede, dopo quell’episodio, nel quartiere tutti mi invitavano a casa per farmi salutare la moglie paralizzata o il figlio colpito da ictus. Una volta arrivai a un contradditorio molto acceso con un signore che era arrabbiato per la scena di un mio film. È stato molto bello, perché, dopo la sfuriata, siamo scoppiati a ridere. E lui mi fa: «Tu te sei dimenticato che sto pe’ mori’ e io t’ho dato del tu invece che del lei». Potrebbe uscirne una cosa un po’ comica e un po’ drammatica.

Lei è anche una star di Facebook e Instagram.

Ci sono dovuto entrare per forza e malvolentieri: c’era un usurpatore che scriveva come se fosse me e mi hanno consigliato di ufficializzare i miei social. Però funziona, le mie pagine sono pacate e serene, e tutti possono partecipare. Scrivo i miei post di getto, mentre aspetto un piatto al ristorante, quando faccio colazione o quando mi viene in mente qualcosa. Non ci penso più di tanto e i follower sentono che quello che dico è vero e sincero.

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