Foto: Alessandro Brachetti

Sta definendo gli ultimi dettagli del fitto calendario 2020 di iniziative per celebrare Raffaello, quando incontro Barbara Jatta, la prima direttrice donna dei Musei Vaticani. Romana, classe 1962, piglio fermo e deciso, al terzo anno del suo mandato alla guida di un polo di musei unico al mondo per qualità e quantità di capolavori custoditi, con numeri da record: solo per citarne alcuni, quasi sette milioni di visitatori nel 2019, quattro chilometri di percorso espositivo, oltre 20mila opere esposte, circa un migliaio di dipendenti. «Sono veramente tanti i progetti delle celebrazioni raffaellesche che i Musei Vaticani si apprestano a svolgere nei prossimi mesi, a 500 anni dalla morte del geniale maestro del Rinascimento. Dal 17 al 23 febbraio, per esempio, il pubblico vedrà la Cappella Sistina proprio come la immaginava Raffaello: cioè con tutti i suoi dieci grandi arazzi di cinque metri per quattro ciascuno, secondo il progetto da lui ideato per papa Leone X. Questa rievocazione - è il termine più corretto perché non si tratta di una ricostruzione, in quanto ci sono notizie contrastanti riguardo la loro esatta collocazione in Sistina – aveva già avuto luogo nel 1983, in occasione dei 500 anni dalla nascita di Raffaello, e nel 2010, ma non tutti gli arazzi erano presenti e l’esposizione si è protratta solo per poche ore, prima di inviarli a Londra, per una mostra al Victoria and Albert Museum», mi spiega Barbara Jatta con lo sguardo lucido e penetrante, che ti squadra e ti studia senza metterti in imbarazzo.

 

«Si tratta di opere molto delicate che necessitano di ambienti con un microclima particolare. Per questo motivo non si sa se, e quando, in futuro, sarà possibile rivedere ancora questi arazzi affissi in Sistina tutti insieme sotto gli affreschi di Michelangelo». Raffaello, Michelangelo, la Sistina, abbiamo cominciato la nostra intervista con i pezzi da novanta, quelli che abitano il cosiddetto Miglio delle Meraviglie, il chilometro che va dall’ingresso dei Musei Vaticani fino alla Cappella. La direttrice lo definisce in questo modo perché, percorrendolo, è possibile ammirare nell’ordine: il Museo Pio-Clementino (con il Laocoonte, l’Apollo del Belvedere, il Perseo trionfante di Canova, il Torso del Belvedere, solo per citare i più conosciuti), poi le gallerie dei Candelabri, degli Arazzi, delle Carte Geografiche, le Stanze di Raffaello e la Cappella Sistina. «Si tratta del percorso più battuto dai visitatori, in particolar modo da quelli che arrivano attraverso le agenzie turistiche esterne. Per questo motivo, sto cercando di valorizzare quelle sezioni dei Musei ingiustamente un po’ dimenticate, forse anche perché, come ripeteva spesso il mio predecessore Antonio Paolucci, Raffaello e Michelangelo sono come due calamite che attirano verso di loro i cuori e le anime di chi varca la soglia dei Vaticani. Quando parlo di settori meno affollati mi riferisco alla Pinacoteca di Giotto, Perugino, Raffaello con la Trasfigurazione, Guido Reni, Poussin e al Caravaggio della Deposizione; al padiglione delle Carrozze, dove portantine, carrozze e automobili ricostruiscono la storia della mobilità papale nel corso dei secoli; alla Galleria di Arte Moderna e Contemporanea, con opere di Van Gogh, Dalí, Bacon, Morandi, Fontana, che in buona parte si dispiega attraverso le stanze di quello che era l’appartamento Borgia affrescato dal Pinturicchio. 

E, ancora, al Museo Egizio e al Museo Etrusco, al Museo Gregoriano Profano e al Museo Pio Cristiano, fino al Museo Anima Mundi», prosegue nel racconto la direttrice. Quest’ultimo nome, tuttavia, non mi dice nulla. Ma l’arcano è presto svelato. Si tratta del Museo Etnologico, recentemente ribattezzato da papa Francesco Anima Mundi, in occasione del suo nuovo allestimento con i depositi delle opere a vista. La collezione, mi spiega, comprende oltre 80mila oggetti e opere d’arte donati nei secoli ai pontefici per il tramite soprattutto dei missionari sparsi in ogni parte del mondo. A partire da reperti preistorici fino a manufatti dei nostri giorni, si spazia dalle testimonianze delle grandi tradizioni spirituali asiatiche a quelle delle civiltà precolombiane e dell’Islam, dalle produzioni dei popoli africani a quelle degli abitanti dell’Oceania e dell’Australia, passando per quelle delle popolazioni indigene d’America. Tra le curiosità, c’è anche un porta messale che era su una delle caravelle di Cristoforo Colombo. Incuriosito dalle parole di Barbara Jatta, dopo essermi congedato da lei, varco la soglia di Anima Mundi.

 

Lo spettacolo che si apre ai miei occhi è davvero straordinario. Mi imbatto per caso nel direttore di questo museo, padre Nicola Mapelli, che avvicinandosi a una vetrina con alcuni variopinti pali funerari provenienti dall’Australia mi spiega il suo impegno in quelle che chiama “riconnessioni”. «Attraverso la nostra attività di studio e ricerca rintracciamo i villaggi e i discendenti degli autori di molti degli oggetti in collezione, li andiamo a visitare, mostriamo loro le immagini dei manufatti in nostro possesso, ascoltiamo le loro storie e le portiamo poi all’interno dei Musei Vaticani. Per esempio, abbiamo rintracciato in un villaggio delle Isole Tiwi, nel Northern Territory dell’Australia, una ottantenne che si ricordava quando da piccola suo nonno scolpì questi pali funerari per inviarli a un uomo importante oltreoceano, cioè al papa dell’epoca». Papa Francesco è venuto di persona a inaugurare il nuovo allestimento della prima sezione di Anima Mundi, dedicato alle popolazioni native dell’Oceania e dell’Australia. Un gesto semplice, ma carico di significato. Al Pontefice piace pensare a quello che ha chiamato Museo Anima Mundi come a un’altra Cappella Sistina, che innalza a capolavori gli oggetti e le opere d’arte rappresentativi delle diverse culture del mondo, e delle loro anime. Di tutti i popoli che ai Musei Vaticani hanno così casa per sentirsi a casa.